Come si esce dalla società dei consumi
La via è il Tao di Lao Tse….E’ al tempo stesso di più e di meno dell’etica così come la intendiamo in occidente. E’ una strada da inventare con l’aiuto di un maestro che forse non esiste. La via della decrescita è il ritorno della saggezza, e la saggezza non coincide con la ragione razionale.
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La via della decrescita è un’apertura,un invito a trovare un altro mondo possibile. Questo altro mondo noi lo chiamiamo società della decrescita. L’invito è a viverci, qui e ora, e non in un ipotetico futuro, che, per quanto desiderabile, forse non vedremo mai. Questo altro mondo dunque sta anche in quello in cui viviamo oggi. Sta anche in noi. La via è anche uno sguardo, un altro sguardo sul nostro mondo, un altro sguardo su di noi.
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La via non è assicurata. Forse anche il Passaggio a Nord-Ovest per raggiungere il mondo dei sogni esiste soltanto in sogno. Ma la ricerca della via non è già la via? E’ possibile che alcuni, seguendo un maestro, l’abbiano già trovata? Forse, ma come saperlo?
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La via della decrescita è dunque prima di tutto una scelta. La decrescita scelta non è la decrescita subita. La via della decrescita è la via della semplicità volontaria? E’ anche la semplicità volontaria, ma non si esaurisce nell’etica della sobrietà. La via della decrescita è la rivoluzione economica e sociale? E’ anche la rivoluzione economica e sociale, ma non si riduce all’etica della resistenza, della rivolta e dell’insubordinazione.
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La via della decrescita è la strada della felicità? La via della decrescita è in ogni caso, una via di uscita dall’enorme decadenza generata dalla società della crescita . Una via d’uscita per recuperare la stima di se stessi. E’ la via per ricostruire una società decente. La società decente, dice il saggio, è una società che non umili i suoi membri. E’ una società che non produce rifiuti. La via della decenza è anche la common decency di George Orwell.
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La decenza comune significa avere ritegno, essere attenti, essere capaci di avere vergogna per quello che viene fatto al mondo e alle persone. La società della crescita è un mondo svergognato, un mondo in cui regna il disprezzo. E il desiderio di sfuggire al disprezzo è una aspirazione universale, (forse la sola veramente universale) che si realizza soltanto nelle società decenti. Un mondo decente forse non è un mondo di abbondanza materiale, ma è un mondo senza miserabili e senza brutture.
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La decrescita coincide con la lotta per la dignità degli zapatisti, con la “dignità ribelle”. La dignità esige che noi siamo noi stessi. Ma la dignità non vuol dire soltanto essere noi stessi. La dignità esiste soltanto se esiste l’altro. Perché noi siamo noi stessi soltanto in rapporto all’altro. E l’altro è altro in rapporto a noi. Dunque la dignità è uno sguardo. Uno sguardo su noi stessi che guarda anche l’altro, che a sua volta si guarda e ci guarda. La dignità dunque è riconoscimento e rispetto.
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La dignità è la lotta perché la dignità coincida con il mondo. Un mondo dove hanno posto tutti i mondi.
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Quando diciamo che la decrescita è un progetto politico, intendiamo che è anche un’etica, perché per noi, come per Aristotele, la politica non è concepibile senza un’etica, e viceversa, anche se è opportuno non confondere i due piani. Una politica che fosse soltanto un’etica sarebbe impotente o terroristica, ma una politica senza etica (come quella che viviamo soprattutto a partire dalla svolta degli anni novanta, dal grande balzo all’indietro neoliberale) vede il trionfo della banalità del male.
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L’etica della decrescita unisce disciplina personale e impegno nel mondo. Il ritiro dal mondo e la sola ricerca della perfezione individuale sono una forma di rifiuto dell’essere, come lo è l’impegno nel mondo senza la preoccupazione per la propria felicità. La militanza fine a se stessa è l’immagine speculare della guerra economica. Entrambe sono un rifiuto dell’essere. In nome del progresso distruggono la bellezza del mondo per inseguire la loro chimera. La fuga nel futuro, che sia l’avvenire radioso dell’utopia comunista o la redenzione in una trans umanità, è una negazione del presente e della condizione umana. La decrescita o sarà gioiosa o non sarà.
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La via della decrescita non è ne il rifiuto ne l’accettazione del mondo. E’ sia il suo rifiuto sia la sua accettazione. Bisogna rifiutare il mondo (immondo) dell’economia della crescita e accettare la vita come gioia.
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La decrescita è una accettazione dell’essere, e dunque dell’essere nel mondo e una testimonianza di gratitudine per il dono ricevuto della bellezza del cosmo. Il fatto di aver ricevuto questo dono forse è stato troppo trascurato, non soltanto dal puritanesimo rivoluzionario, ma anche dalla tradizione caritatevole cristiana.
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E’ vero che per quest’ultimo la natura è il dono primario. Non è sicuramente né la matrigna avara degli economisti, né la prostituta di Bacon, che bisogna asservire aggredendola.
Ma, a differenza di quanto avviene nelle tradizioni induista o buddista, nella tradizione cristiana la natura, creata per servire l’uomo, non partecipa della sua umanità. In Occidente, la visione cosmoteandrica di un San Francesco d’Assisi è rimasta marginale. Il cattolicesimo continua a muoversi su questa linea, come dimostra l’atteggiamento riservato, se non apertamente ostile, nei confronti degli adepti dell’undicesimo comandamento, “rispetta la natura in quanto creazione divina”. E l’antireligione marxista non è molto diversa.
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La via della decrescita è ecocentrica, ma è anche antropocentrica. Senza cadere in un integralismo ecocentrico, si può concepire un compromesso:l’uomo come “pastore dell’essere”, in una concezione che, seguendo Vittorio Lanternari, può essere definita “eco antropocentrica”. Testimoniare la compassione anche nei riguardi delle altre specie non è estraneo alla via della decrescita.
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In questo gli obiettori di crescita percorrono gli stessi sentieri dei popoli autoctoni, in particolare di quelli che venerano la Pachamama. La via della decrescita è quella del buon giardiniere, non quella del predatore. Il mito tecnico e prometeico di una artificializzazione dell’universo è una forma di rifiuto del mondo e dell’essere.
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La via della decrescita è anche quella della emancipazione e della conquista della autonomia. E’ la ricerca della libertà vera e non della sua caricatura, quella dell’edonismo sfrenato e senza regole proposto dalla pubblicità e dal marketing, e promossa dal nuovo spirito del capitalismo, falsamente gioioso e di fatto mortifero.
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Sostituire l’oppio del consumo sfrenato con l’otium, cioè con la “scuola”, quella dei greci, che indicava un “altrove”, libero da ogni preoccupazione di sopravvivenza, di lavoro e di mercato, riservato al tempo libero attivo, in cui il giovane individuo impara una sola cosa:”padroneggiare le proprie passioni”. La via della decrescita è un’uscita di emergenza dal vicolo cieco dell’immondializzazione. L’accettazione dell’essere non è una sottomissione all’esistente. Nella resistenza al consumismo, complice della banalità del male economico, l’obiettore di crescita trova la gioia di vivere.
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La via della decrescita è non violenta? Non è la via della violenza cieca, perché dalla violenza nasce solo violenza. Ma, anche se corroso dalla ruggine, il corsetto di ferro della modernità con tutta probabilità non si spezzerà da solo. Noi siamo i ribelli, i franchi tiratori della società della crescita. Siamo in agguato nella giungla delle imprese multinazionali. Siamo, alla nostra maniera, combattenti della quarta guerra mondiale contro l’ordine neoliberale.
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Noi siamo anche l’oasi nel deserto della società di mercato. Quando diciamo che esiste un altro mondo e che è in questo, intendiamo che si può e si deve vivere diversamente il presente. Noi cogliamo la possibilità di una fuoriuscita dall’economia, di una via di scampo verso una società e una civiltà emancipate e autonome.
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La via della decrescita è una utopia, una visione immaginaria del futuro: non una pura creazione mentale, ma una affermazione a partire dalla negatività del presente, dall’aberrazione di una società della crescita senza limiti. Ispirarsi a nuovi ideali ha già un suo peso sulla realtà di oggi, permettendo tra l’altro di esplorare le possibilità oggettive della loro realizzazione.
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La decrescita è un’arte di vivere. Un’arte di vivere bene, in accordo con il mondo. L’obiettore di crescita è anche un artista. Qualcuno per il quale il godimento estetico è una parte importante della sua gioia di vivere. L’etica della decrescita implica necessariamente un’estetica della decrescita. E tuttavia l’etica della decrescita non si riduce a un’estetica. Fare della propria vita un’opera d’arte non è l’obiettivo, ma uno dei risultati.
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La via della decrescita è un’ascesi. Limitandosi all’aspetto curativo e alla lotta contro la tossicodipendenza da consumismo, si può riprendere l’idea di Ivan Illich del “tecno digiuno”. La decrescita è un esercizio di emancipazione dalle protesi tecniche, una liberazione dalla servitù volontaria e un allenamento all’autonomia.
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La via della decrescita è una conversione di se stessi e degli altri. La conversione richiesta per realizzare la trasformazione sociale necessaria e desiderabile, presuppone che si crei un atteggiamento di accoglienza e di apertura a questo cambiamento. Questa educazione è, al tempo stesso, e indissolubilmente, sapere ed etica, resistenza e dissidenza.
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La via della decrescita non è ne moderna ne anti moderna. Noi inscriviamo pienamente il nostro progetto nel solco dell’illuminismo, o piuttosto della sua parte migliore, quella della emancipazione dell’umanità e della realizzazione di una società autonoma. Ma il progetto dei Lumi conteneva una terribile ambivalenza: se da una parte puntava a liberare l’uomo dalla soggezione alla trascendenza, alla tradizione e alla rivelazione, numi tutelari dell’Ancien Règime, dall’altra uno dei mezzi per realizzare quel progetto era il controllo razionale della natura attraverso l’economia e la tecnica. In questo modo, la società moderna è diventata la società più eteronoma della storia dell’umanità, sottomessa alla dittatura dei mercati finanziari e alla mano invisibile dell’economia, oltre che alle leggi della tecno scienza.
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L’artificializzazione del mondo finisce per compromettere l’identità stessa dell’essere umano. La realizzazione del progetto di autonomia attraverso la fuga in avanti tecno scientifica porta al transumanesimo. Oltrepassando le barriere biologiche che ci limitano, ci si vorrebbe emancipare dagli ostacoli legati al nostro condizionamento genetico.
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L’emancipazione attraverso la tecno scienza è una falsa emancipazione, ci mette in contrasto con la madre terra e rivela un rifiuto della realtà. La “negazione del suolo” che produce sradica l’uomo fino al punto di manipolare il suo corpo, di creare una minaccia forse mortale per la sua integrità e di farlo sparire nella transumanità vagheggiata dal bricolage delle nanotecnologie.
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Per questo il ritorno al locale ha un ruolo primario nel progetto della decrescita, in quanto ci lega alla madre terra contrapponendosi alla negazione della realtà insita nella crescita. La via della decrescita è riconquista della realtà e della terra che ne è il principio. Si tratta di abitare la terra come un territorio, un luogo di complicità e di reciprocità. Di ritrovare la nostra intimità con una dimensione originaria.
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La via della decrescita è quella della libera critica. E’ quella dell’autolimitazione e non dello scatenamento senza freni delle passioni tristi. La decrescita vuole riprendere il programma di emancipazione politica della modernità, affrontando le difficoltà che comporta la sua realizzazione.
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Se la decrescita e il progetto di costruzione di una società autonoma realizzano il sogno di emancipazione dei Lumi e della modernità, non lo fanno attraverso uno svincolamento dal legame con la natura e dal radicamento nella storia, ma al contrario riconoscendo la doppia eredità della nostra naturalità e della nostra storicità. Bisogna lottare contro l’illimitatezza dell’individuo e del suo rapporto con la natura che abbiamo preteso di creare. La via della decrescita è questa lotta.
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La via della decrescita è una emancipazione dalla religione della crescita. Richiede dunque necessariamente un “de-credere”. Bisogna abolire la fede nell’economia, rinunciare al rituale del consumo e al culto del denaro. Per alcuni teologi, la società della crescita poggia su una struttura di peccato. Contrariamente alla formula sventurata dell’enciclica Populorum progressio, lo sviluppo non è il nuovo nome della pace ma quello della guerra.
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Nella società della crescita non ci sarà mai più ne pace ne giustizia. Al contrario, una società della decrescita riporterà al proprio centro la pace e la giustizia. Non si vuole cadere nell’illusione di una mitica società perfetta in cui il male sarebbe sradicato definitivamente, ma inventare una società dinamica che affronta le sue inevitabili imperfezioni e contraddizioni dandosi come orizzonte il bene comune anziché l’avidità sfrenata. La via della decrescita non è una religione ne un’anti religione, è una saggezza.
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Per gli obiettori di crescita la ricerca della via è un dovere, ma non è un imperativo categorico di tipo kantiano, anche se noi facciamo nostro l’imperativo kantiano come riformulato da Hans Jonas: “ Agisci in modo che gli effetti della tua azione siano compatibili con la permanenza di una vita autenticamente umana sulla terra”. Il principio di responsabilità di Jonas è parte integrante dell’etica della decrescita.