Trasmissione del 18/02/2015 "La morte nella società del Capitale"
“ La morte nella società del Capitale”
” Profezia/La morte nella società del Capitale, Parte prima
/Forse ci siamo dimenticate…./ La morte nella società del Capitale” Parte seconda”
Materiali sulla trasmissione estratti da:
DIETRO IL PARAVENTO
“Aspetti sociali, psicodinamici e relazionali dell’assistenza ai morenti”
di Antonella Bonucci
contatti: antobon06@libero.it
(…….)In passato, nella sua quasi totale impotenza, il medico svolgeva soprattutto il compito di nuntius mortis; ora assume la fisionomia di quello che può contrapporsi, a volte con successo, a una morte data fino ad allora per ineluttabile e che comincia a spostarsi , impercettibilmente forse, ma in modo continuo, sempre più in avanti; la malattia si sostituisce ad essa, iniziando quel lento mutamento che porterà il medico ad essere non un soccorritore, colui che allevia la sofferenza, ma lo strenuo oppositore della morte, costi quel che costi; contemporaneamente “… ha rinunciato al ruolo che fu per lungo tempo il suo, senza dubbio nel XVIII secolo. Nel XIX, parla solo se lo si interroga, e già con qualche riserva.” (Ariés, 1975).
Si fa strada e si manifesta (ma come abbiamo visto viene da lontano) la paura che vengano dichiarate morte persone che non lo sono affatto: è il primo segno, probabilmente, di quella scarsa fiducia che, a fronte di conquiste sempre più importanti, aprirà un solco tra i medici e tutti gli “altri”, unita a una paura ancestrale (forse una sorta di incredulità?), che si abbevera al “fiume dell’angoscia che trae origine dalla notte dei tempi ”. (Ziegler, 1975).
Agli antichi luoghi della morte (la casa, la chiesa, il cimitero) si affianca, lentamente, l’ospedale; alla famiglia, che proprio ora raggiunge il massimo della sua coesione e partecipazione, si affianca la classe medica, che man mano, ma inesorabilmente, la sostituirà negli ultimi istanti di vita dei suoi cari.
Il rituale stesso della morte comincia lentamente a cambiare intorno alla metà del secolo: al capezzale del moribondo non vanno e vengono più tutti i componenti della sua rete sociale, che si riducono via via alla famiglia, fino a limitarsi, nel secolo successivo, a pochi componenti della stessa. La figura del prete si ridimensiona; lungi dal voler rinunciare al suo secolare ruolo di amministratore della buona morte, comincia malvolentieri ad arretrare nei confronti del medico, e spesso viene chiamato al capezzale del morente quando ormai questi non è più in grado di rendersi conto della sua presenza. Non possiamo però certamente parlare di “scristianizzazione” della morte; piuttosto diremo che essa abbandona i toni terroristici per privilegiare quelli consolatori.
Il Romanticismo però, per certi versi, celebra la morte, se pure nei toni eroici e sentimentali che gli sono propri, anche arrivando a descrizioni particolareggiate e a rievocazioni o premonizioni che sfociano, per noi contemporanei, decisamente nel macabro. Essa inoltre, pur allontanandosi dall’ineluttabilità che le era stata propria nei secoli precedenti, acquista anche un carattere di possibilità individuale, di consapevole scelta. Nel secolo caratterizzato dalle grandi rivoluzioni borghesi e dal socialismo scientifico, si afferma una visione che, ponendo come irrinunciabile l’affermazione dei propri diritti, pone l’uomo di fronte al primato di una vita degna di essere vissuta, della possibilità in altre parole di conquistare in terra quel paradiso che sempre era precedentemente prefigurato come premio successivo alla morte. Questa appare ora come possibilità, se pure non cercata e celebrata come in un certo romanticismo, per affrancarsi dalla schiavitù e dallo sfruttamento.
I vivi, o meglio coloro la cui morte è ancora presumibilmente lontana, cominciano a nascondere al moribondo il suo stato. Sia in ambito cattolico, che riformato, la veglia funebre si trasforma e, per così dire, si impoverisce: comincia ad essere non più tollerata quella commistione tra vita e morte che l’aveva caratterizzata; dicevamo che diminuiscono le visite, ma cambia anche l’abitudine di mangiare, di riunirsi, di celebrare in fondo la vita proprio in presenza della morte, affermandone la quotidianeità e la familiarità.
Prende piede l’abitudine di far soggiornare i morti negli obitori, sancita da leggi che si oppongono alla forte resistenza del pensare comune e si allunga l’intervallo di tempo tra morte e sepoltura: “… la famiglia viene progressivamente espropriata del suo controllo sul corpo morto ” (Vovelle, 1983). Il cadavere, fino ad alra seppellito avvolto in un sudario, viene ora sempre più spesso rinchiuso il prima possibile in una bara, per sottrarlo in fretta alla vista dei vivi. Il rituale che nei secoli precedenti aveva privilegiato gli ultimi momenti di vita riservando poco tempo alle esequie (con l’eccezione ovviamente dei ricchi e dei potenti, che anche in questo caso davano un segnale della loro forza) si capovolge, tralasciando l’attenzione verso l’agonia a favore di regole, scritte o meno, sempre più minuziose nei confronti delle cerimonie funebri.
E il morente, che per secoli era stato l’incontrastato protagonista della propria morte, comincia a cedere la scena alla sua famiglia e al medico; inizia un processo che continuerà impetuoso per tutto il secolo scorso e porterà alla cancellazione della morte nella coscienza dei vivi; essa, ovviamente è pur sempre un’amara realtà, ma l’uomo comincia a scegliere di vivere come se non ci fosse: “… il morire è diventato in Occidente un fatto osceno ”. (Urbain, 1980).
LA MORTE IN OSPEDALE
L’allungarsi della speranza di vita e la convinzione che, almeno per noi stessi, una morte violenta sia solo una remota possibilità, ci indurrebbero a ritenere il morire un evento naturale e non un’anticipata aggressione, ma l’atteggiamento medico e sociale nei confronti della malattia testimonia, a mio parere, esattamente il contrario, ascrivendo anch’essa ad un livello di violenza che, con gli opportuni accorgimenti, è possibile, perlomeno in una società come la nostra, evitare. E se pur sono innegabili e tantomeno irrinunciabili le conquiste mediche che ci conducono a sconfiggere infezioni che solo un secolo fa avrebbero portato alla morte non solo i più deboli, è evidente che questo ha comportato l’aumento della vita media insieme però anche a un aumento dell’agonia media, se così possiamo esprimerci, ovvero a un prolungarsi di situazioni di estrema sofferenza, fisica e morale (ma qual’è il confine?) in attesa di una morte comunque inevitabile, e che ha reso ingestibile da parte della famiglia il periodo, ormai sempre più lungo, che la precede.
Uno dei primi aspetti che questa situazione ha determinato è stato lo spostamento dell’agonia dalla casa all’ospedale…
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E in ospedale si muore, inoltre, anche per atto formale. Nella cosiddetta “Dichiarazione di Harvard” pubblicata il 5 agosto 1968 sul Journal of the American Medical Association, vengono ridefiniti, ad opera di un “Ad hoc Committee to examine the Definition, of Brain Death” i “criteri ormai superati della definizione della morte” a causa dell’onere che persone in condizioni disperate “rappresentano per le famiglie e gli ospedali” e per le “controversie quando si presenta il problema del prelievo di organi destinati al trapianto”. Non più evento naturale (cessazione della respirazione e del battito cardiaco) semplicemente constatati dal medico, ma valutazione di “segni” che, pur in presenza di respirazione e quindi attività cardiaca artificialmente indotte, ratificano lo status di cadavere per un corpo, tutto sommato, ancora a cuore battente. Ricordiamo del resto che pochi mesi prima, esattamente il 3 dicembre 1967, a Città del Capo il prof. Christian Barnard aveva effettuato il primo trapianto cardiaco.
La “pornografia della morte”
…. Un esempio lampante di come massicciamente la morte sia stata allontanata dalla nostra società è stato dato, negli anni ’60, dal sociologo inglese Geoffrey Gorer, che nel suo ormai classico lavoro, The Pornografy of Death (1963) ripercorre, anche sulla scorta di esperienze personali (la morte del padre, nel 1915, e del fratello nel 1932) il progressivo perdersi dei riti del lutto nella società borghese di cui fa parte. Alla fobia vittoriana nei confronti del sesso si sovrappone prima, e la rimpiazza poi, una pornografia della morte che tende a cancellarne ogni riferimento, fino a negare ai sopravvissuti anche il conforto della partecipazione sociale al loro dolore. Lo stesso Gorer racconta che in seguito alla morte del fratello, tenuto all’oscuro del suo cancro fino alla fine (nonostante fosse un medico), non fu allestita la veglia funebre nè fu esposta la salma. Per la preparazione del cadavere furono chiamate due ex infermiere che, al loro arrivo, chiesero: “Dov’è il malato?”, e dopo averlo sistemato esclamarono: “Il paziente ha un aspetto incantevole adesso”.
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Ci troviamo di fronte, sembra di poter dire, ad un’incapacità strisciante di celebrare, anche attraverso i riti funebri, la partecipazione al cordoglio e il lutto, quelle cerimonie che nei secoli hanno rappresentato un valido e collettivo antidoto alla paura della morte, o forse soltanto un modo di alleviare una convivenza obbligata: “… l’uomo è un animale che seppellisce i propri morti (e se agisce così è perché ha coscienza della fatalità della sua propria morte), che crede nell’efficacia dei miti di passaggio o d’immortalità e del rituale che ne deriva, che spera di sopravvivere nella memoria di coloro che venereranno la sua tomba… è il suo nulla che egli combatte avendo cura dei suoi morti” (Thomas, in Campione, 1996). Abbandonare questo cammino, scegliere di vivere come se la morte non esistesse ha sicuramente un prezzo, sociale e personale.
ALCUNE INTERPRETAZIONI
La scienza si separa dalla filosofia e anche la morte, come ogni evento, viene integrata nell’insieme dei fenomeni naturali che possono essere spiegati, ma nel corso dei secoli, lentamente, rimane avulsa da quel sistema ideale che aveva reso possibile la sua integrazione sociale.
Ziegler (1975), dal canto suo, coerentemente con la sua visione economico-politica, attribuisce la genesi dell’atteggiamento nei confronti della morte da parte della “società bottegaia capitalistica” alla mercificazione e reificazione dell’essere umano. I morti non producono e soprattutto non consumano; essi, insieme ai malati inguaribili, sono affidati a specialisti che sbrigano le necessarie formalità, manifestando anche in questo la capacità di trarre profitto dall’impensabile. E se non siamo certamente tutti uguali, nelle nostre democratiche società, più che mai ciò appare vero di fronte alla morte.
Accanto a ciò occorre anche considerare il profondo individualismo (“individualizzazione” come la definisce Elias) che caratterizza la vita e la coscienza dell’uomo moderno: “Nelle società avanzare gli uomini per lo più pensano a se stessi come a esseri indipendenti, a monadi senza finestre…” (Elias, 1982). Inevitabile quindi morire isolati , così come si è vissuto; nonostante si sia (forse superficialmente) convinti che la propria vita abbia senso all’interno delle relazioni, particolari e generali, con gli altri esseri umani, “… nel momento dell’autoriflessione… nelle società avanzate in genere prende il sopravvento il sentimento, largamente diffuso … che ognuno esista per sé stesso e del tutto indipendentemente da altri individui, dal mondo esterno” (ibid.).
Un ulteriore punto di vista, che ci sembra complementare comunque a quello di Ziegler, ritiene che nella nostra società, dove valori primari sono la bellezza, la giovinezza, il denaro, non ci sia posto per malattia e morte, che ci ricordano purtroppo come, nonostante trapianti, lifting e quant’altro, questo grande carnevale che la pubblicità e la televisione ci prospettano di continuo prima o poi dovrà finire.
E’ necessario quindi ricostruire un linguaggio, se non della morte, irriducibilmente individuale e fra l’altro impossibile da sperimentare in modo fruibile, quantomeno del morire, ovvero di “… quella parte della vita che conduce alla morte, che – diversamente dalla morte – può essere modificata, trasformata, con adeguati interventi e che presenta dinamiche e momenti quindi identificabili e descrivibili” (Moretti, 1985), senza peraltro rinunciare a quel “planetario di costruzioni simboliche e di pratiche rituali, adatte ad attutire la crudeltà dell’evento” (Di Mola, 1994). A questo rivolge il suo pensiero l’essere umano, continuando a sopportare privatamente quello che, per secoli, spesso aveva condiviso con i suoi simili: le sue paure, le sue angosce sono le stesse di sempre, ma amplificate dalla profonda solitudine che lo attende alla fine del percorso.
“Molti sono dunque i terrori che circondano la morte. Dobbiamo ancora scoprire ciò che gli uomini possono fare per garantire ai loro simili una fine tranquilla e pacifica; l’amicizia di coloro che sopravvivono, la sensazione che debbono avere i morenti di non essere d’ingombro fanno senz’altro parte di questo programma. La rimozione sociale, l’atmosfera di malessere che spesso oggigiorno circonda gli ultimi istanti di vita, non sono certamente d’aiuto per gli uomini. Forse dovremmo parlare con più franchezza della morte, smettendo di considerarla un mistero. La morte non cela alcun mistero, non apre alcuna porta: è la fine di una creatura umana. L’etica dell’homo clausus, dell’uomo che si sente solo, decadrà rapidamente se cesseremo di rimuovere la morte accettandola invece come parte integrante della vita. Se l’umanità scompare, tutto ciò che gli uomini hanno fatto, tutto ciò per cui hanno combattuto, tutti i loro sistemi e credenze, umane e sovrumane, non avranno più senso.” (Elias, 1982).
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ALCUNE INTERPRETAZIONI
… É necessario pertanto esprimere la depressione che comporta l’accettare la morte, non sentircene più perseguitati e vivere la possibilità di perdere ciò che amiamo come “rafforzamento delle nostre energie creative [per] essere in grado di convivere con il dolore di una perdita, che è equivalente alla morte stessa, per poter tentare di integrare la morte con la vita” (ibid.), l’oggetto cattivo con quello buono, grazie alla crescita individuale, che è in fondo anche un cammino verso la fine della vita.
Analoga per certi aspetti è la lettura che dà Fornari (in Campione, 1996) del passaggio da una scissione che proietta la morte fuori da sè (come nei popoli primitivi e nel bambino) riconducendola a un attacco nemico, cattivo, e la sua elaborazione depressiva, grazie all’intervento di processi cognitivi che, da accadimento esterno, l’hanno ricondotta a un evento naturale, che occorre accettare: “… i fatti cognitivi sono intervenuti nel far cambiare il nostro atteggiamento di fronte alla morte” grazie però alla simbolizzazione che permette di tenere al nostro interno un concetto negativo “ … per cui il fatto di morire può essere tenuto dentro solo … in quanto lo trasformo in pensiero … in significati verbali poiché [se così non fosse] lo espellerei” (ibid.).
Judd ci mette però in guardia rispetto a un’altra manifestazione della scissione: celebrare la bella morte, idealizzarla, misticizzarla, significa mettere in atto una difesa inconscia, ancora una volta disintegrante, in cui leggere un caparbio rifiuto “di quanto in essa è di effettiva perdita e distacco, e di tutta la sofferenza che abitualmente comporta”. (ibid.).
GUARIRE E CURARE
Troppo spesso, infatti, questi due aspetti dell’assistenza medica sono forzatamente separati, se non contrapposti, fino ad essere attribuiti a ruoli diversi, o reputati tali, ovvero quelli del medico e dell’infermiere: “Mentre si dice che la medicina mira a curare [to cure], l’impegno terapeutico o la finalità morale della professione di infermiera è identificato con il prendersi cura [to care]. La medicina e i medici, si dice, si concentrano spesso sulla cura dello stato di salute del paziente; la professione di infermiera, invece, è basata su un prendersi cura olistico…” E ancora, citando una rivista di infermieri: “La scienza e la tecnologia mediche si occupano della diagnosi e della cura delle malattie. Questo modello riduzionista… inevitabilmente seziona, frammenta e spersonalizza gli esseri umani… Il prendersi cura che fa parte del ruolo dell’infermiera, richiede che la totalità degli esseri umani sia preservata nella sua integrità” (Kuhse, 1997).
A questo concetto di cura come guarigione sono finalizzate tutte le disponibilità professionali e tecniche, che si rivelano però fortemente inadeguate rispetto alle particolarissime esigenze di un paziente che muore, privo di risorse e di speranze davanti a una medicina che forzatamente, convinta che questo sia l’atteggiamento migliore per lo stesso malato, continua a considerarlo solo un corpo con determinati sintomi, e non lo vede come una persona che sta attraversando la crisi più drammatica, perché definitiva, della sua intera esistenza.
Nella circostanza della malattia terminale infatti, in cui la cura medica, tradizionalmente intesa, non ha più senso nell’ottica di un ripristino delle condizioni di salute, il prendersi cura assume una valenza fondamentale, e non ha senso quindi negarlo o delegarlo tutt’al più ai volontari ma, come ormai hanno maturato in decenni di esperienza le realtà che si occupano dei morenti, è un impegno che va assunto nella sua interezza da un equipe multidisciplinare fortemente motivata, non solo in senso etico, ma soprattutto professionale.
DIRE O NON DIRE
Il medico attribuisce così alla propria difficoltà (culturale e personale) di confrontarsi con la morte, un carattere di universalità, e giustifica “la [propria] tradizionale reticenza … ad instaurare con il paziente, fin dall’inizio della malattia, un leale e trasparente processo informativo sulle sue condizioni di salute” (Cunietti et. al. in Di Mola, 1994) con l’argomentazione che questo potrebbe gettare il malato in uno stato confusionale o depressivo, implicante anche il “rischio di suicidio” (Bressi – Invernizzi, 1994).
Molti medici inoltre ritengono che l’ignoranza possa essere uno strumento terapeutico, contrapposta alla certezza (quantomeno quella, spesso sopravvalutata, che un’indagine può giustificare) che invece potrebbe eliminare la speranza dall’orizzonte del malato. Da questo punto di vita la comunicazione rappresenta per medici e pazienti, non un’informazione, ma una vera e propria sentenza o condanna, che grava pesantemente su ogni ulteriore possibilità di relazione, considerando anche che nel nostro contesto sociale tutto “sembra cospiri a tener fuori la malattia e il male, impedendone l’accesso nell’area delle relazioni … Se è il dire che crea i fatti, il tacere li può trattenere dall’essere reali” (ibid.).
Non è infrequente perciò che sia la famiglia ad essere informata delle condizioni del paziente e che su di essa quindi gravi la responsabilità di valutare quanto questi sia in condizione o meno di ricevere la notizia, oppure che il peso di una scelta in tal senso ricada di fatto sull’infermiere, per quanto non ufficialmente investito, se non altro perché interagisce col malato per molto più tempo del medico.
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Se è opportuno quindi tracciare delle coordinate di massima che possano, nella consapevolezza assoluta dell’individualità delle persone, essere un riferimento per l’operatore che comunica una diagnosi, è opportuno anche chiarire che certamente non si tratta di un compito qualsiasi, ma che la motivazione più spesso addotta, ossia proteggere il paziente, in realtà non è altro che il desiderio di proteggere se stessi dall’incapacità di intrattenere una relazione e soprattutto di contenerne l’inevitabile ritorno emotivo.
Occorre comunque fare attenzione a che questa necessità deontologica e fondamentalmente etica di informare correttamente il paziente non sia vista come un imperativo a comunicare, ad ogni costo, una diagnosi infausta. L’ascolto del paziente dovrebbe essere la linea guida di ogni intervento, beninteso non un ascolto che si limiti a una raccolta di informazioni, quanto una sensibilità che sappia cogliere la capacità di assorbire una notizia di questo genere e che soprattutto ne sappia rispettare tempi e modalità individuali.
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Nel tentativo di trovare una strada che sia intermedia e propositiva tra il coinvolgimento e il distacco, tra il guarire e il curare, l’operatore si trova costretto dall’elaborazione sociale a svolgere il ruolo di guardiano della morte, che “vigila una realtà scomoda affinché non emerga a mettere in discussione gli equilibri” (Morretta-Tommasi, 1995), ma contemporaneamente deve confrontarsi con un percorso che è parallelo a quello descritto nel paragrafo precedente.
Si attua così una collusione tra le paure del malato e quelle del curante, laddove la presunta incapacità del primo di esprimere la sua angoscia e di parlare della morte è speculare all’angoscia di chi lo circonda: la “congiura del silenzio” spesso non serve al morente, serve solo agli altri.
Questo tentativo di non coinvolgersi, di lasciare le emozioni fuori dal proprio lavoro ha però un prezzo; le regole classiche della medicina qui servono poco: Marie de Hennezel (1995) osserva che “ci si sfinisce meno… impegnandosi a fondo e imparando a ricaricarsi, che non proteggendosi dietro un atteggiamento difensivo… Fra il personale curante chi si difende di più è poi chi si lamenta di essere spossato”.
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Nella relazione d’aiuto che si delinea tra il morente e chi lo assiste l’impossibilità di confrontarsi con una necessità, la morte, che il mondo contemporaneo cerca affannosamente di respingere, impedisce lo strutturarsi di un rapporto creativo. L’operatore si ritrae davanti all’enormità di assumersi un carico che gli appare insostenibile, nell’equivoco, ancora una volta che l’altro esprima una richiesta di vita, attraverso una domanda che appare quindi “globale, infinita” (Ranci Ortigosa-Rotondo, 1996).
Gli operatori devono allora elaborare “un cambiamento di prospettiva… l’aiuto possibile non porterà al benessere e alla salute, ma è un aiuto a vivere il percorso verso la morte… significa vivere l’incertezza … mettere le proprie competenze tecniche e professionali da parte, ascoltare e contenere le proprie emozioni e quelle dell’altro, confrontarsi con la realtà della morte” (ibid.).
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A conclusione di questo paragrafo riportiamo le parole di una giovane infermiera anonima (citato in Ziegler, 1975) che si è trovata, per così dire, dall’altra parte della barricata, e quindi forse più consapevole dei suoi colleghi, dei loro vissuti e di quelli dei malati:
“Di che cosa avete paura? Sono io che sto morendo. Lo so, siete impacciate, non sapete che cosa dire, che cosa fare. Ma credetemi, se voi partecipaste alla mia morte non commettereste un errore. Riconoscete per un momento che vi importa… restate, non andatevene, aspettate… Per voi la morte fa parte della routine, per me è una cosa nuova e unica… Ho tante cose da dire. Non ci vorrebbe molto tempo per parlare un poco con me… Se voleste ascoltarmi e condividere quel poco che mi resta di vita e se addirittura piangeste con me, mettereste forse in gioco la vostra integrità professionale? I rapporti da persona a persona non possono dunque esistere in un ospedale? Sarebbe talmente più facile morire… in un ospedale, circondata da amici…”
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La commissione ministeriale italiana per le cure palliative ha recepito, nel 1999, le indicazioni dell’O.M.S. (1990) ed ha emanato una definizione operativa delle cure palliative, secondo la quale esse:
– affermano la vita e considerano il morire come evento naturale
– non accelerano né ritardano la morte
– provvedono al sollievo del dolore e degli altri disturbi
– integrano gli aspetti psicologici e spirituali dell’assistenza
– aiutano i pazienti a vivere in maniera attiva fino alla morte
– sostengono la famiglia durante la malattia e durante il lutto.
Le cure palliative si caratterizzano inoltre per:
– la globalità dell’intervento terapeutico, avente per obiettivo la qualità della vita residua
– la valorizzazione delle risorse del malato e della sua famiglia
– la molteplicità delle figure professionali e non professionali coinvolte nel piano di cura
– il pieno rispetto dell’autonomia e dei valori della persona malata
– la forte integrazione e il pieno inserimento nella rete dei servizi sanitari e sociali
– l’intensità delle cure che devono essere in grado di dare risposte pronte ed efficaci al mutare dei bisogni del malato
– la continuità della cura fino all’ultimo istante
– la qualità delle prestazioni erogate.
Riteniamo che tutto questo non sia un progetto ambizioso o utopistico, ma piuttosto il minimo di assistenza che possiamo dare ai nostri simili e che speriamo sarà fornita a noi stessi. Tutte le persone che vi sono e vi saranno implicate (medici, infermieri, inservienti, assistenti spirituali) dovranno però essere fermamente motivate e adeguatamente formate. Non è un lavoro come un altro, e sicuramente la psicologia può e potrà dare un contributo fondamentale perché diventi, da eccezione, una norma,
“con un avvertimento. Alla psicologia spesso si chiede quello che non può dare: delle risposte valide in ogni situazione. La psicologia – o almeno la psicologia che più mi affascina – interroga, dialoga, va a rovistare ovunque, distoglie dal modo di pensare che ci è consueto… Inoltre la psiche non vive soltanto nel mondo interiore o negli studi degli psicoterapeuti. E’ anche altrove: nel quartiere, nell’ambiente, nel traffico, nei supermercati, nei cronicari… è avara di risposte e soprattutto interroga; può dare, deo concedente, una sensibilità diversa” (Spagnoli, 1995).
L’auspicio è quindi che questo patrimonio di esperienza e di sensibilità diventi una pratica comune in tutte le istituzioni sanitarie e che possa “stimolare gradualmente una trasformazione delle condizioni della morte nella nostra società”1.
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1 Circolare ministeriale relativa all’organizzazione delle cure e all’accompagnamento dei malati in fase terminale. Repubblica Francese – Ministero degli Affari Sociali – Direzione generale della Sanità – Parigi, 26 agosto 1986 (in Sebag-Lanoë, 1986).
http://coordinamenta.noblogs.org/post/2015/02/20/podcast-della-trasmissione-del-18022015/