Controinchiesta sulle presunte complicità tra Ong e scafisti
L’8 gennaio il Corriere della Sera ha pubblicato il resoconto del lavoro sotto copertura di un agente di polizia che, infiltrato su una nave di Save the Children, avrebbe documentato la collaborazione tra Ong e trafficanti libici di esseri umani.
Attraverso una controinchiesta, due giornalisti freelance sono riusciti a sbugiardare questa narrazione che manifesta non poche incognite.
Innanzitutto la testata riporta alcune ipotesi investigative spacciandole come fatti comprovati. Le carte del processo, che ancora è in fase preliminare, dimostrano che la questione non è ancora così verificata. L’inchiesta della procura di Trapani è stata inoltre un maxi investimento economico oltre investigativo, interesse che ha delle radici più strettamente politiche più profonde: sono infatti stati hackerati cellulari di medici senza frontiere, sono state posizionate numerose microspie, e sono state raccolte moltissime intercettazioni nel 2017 toccando l’intero ambiente di chi si occupa di salvataggio in mare. Il tutto di pari passo con una propaganda politica che ne ha dipinto un nemico pubblico.
Nella narrazione mainstream italiana, si fa anche confusione sull’utilizzo stesso dei termini del discorso, a partire da quello di “trafficanti” fino a quello di “salvataggio” diviso in “vero” e “falso”. Sembra banale ma è opportuno specificare che l’ultima distinzione non sia altro che un’idea diffamatoria, in quanto il salvataggio in mare operato dalle Ong negli ultimi anni ha di fatto
intralciato moltissime operazioni di arresti, da cui si spiega anche la furia investigativa.
I due freelance non hanno consultato solo le carte processuali ma anche i rapporti dell’agente infiltrato, il quale non documenta le complicità narrate, ma anzi mette in luce quelle tra trafficanti e guardia costiera libica. Questa è finanziata da Italia e UE per contenere le partenze e non sembra casuale che il Corriere preferisca non parlarne.
Sull’atteggiamento inoltre della guardia costiera italiana, branca della marina militare, è solo negli ultimi anni che essa è così piegata alla campagna antimigratoria del governo.
Non molto tempo fa infatti, in virtù di accordi internazonali, essa dichiarava che di fronte ad evidente pericolosità intrinseca delle navi provenienti dalla Libia, il soccorso fosse necessario.
Tra gli elementi che chiarificano le radici delle sistemiche versioni dei fatti, esemplificativo è infine un aspetto del processo Salvini – Open Arms : la marina militare inviò un sommergibile, operazione chiaramente costosa, a fare alcune foto al barcone vuoto appena salvato da Open Arms per dimostrare che esso ancora galleggiava. Questa foto arrivò a Salvini, allora ministro dell’Interno, che non esitò ad usarla per la sua propagada contro le ong.
Ne parliamo con Lorenzo D’Agostino, giornalista freelance.