Note sui tragici giorni in cui la città lombarda ha vissuto la sua tragedia. Niente più lavoro in fabbrica: “ora il silenzio e il vuoto sono sempre; sono tutto. E’ come guardare verso la morte e capire la nostra fragilità”. E ancora, scrive l’autrice: “abbiamo lottato per i diritti e non è senza preoccupazione che guardiamo al domani”.
Di Nadia Agustoni
29 marzo 2020
Ieri è morto il vicino. La telefonata alla famiglia alle 16,55. Loro sono in quarantena, lo avevano portato via martedì. Andato. Come gli altri lo cremeranno. Mio fratello è nello stesso ospedale dove il mio vicino di pianerottolo è morto. Sta male da settimane, lo hanno ricoverato mercoledì e ha bisogno di ossigeno; anche per lui la diagnosi è polmonite. Nel reparto dove si trova ci sono ormai solo i malati di Covid19.
Nei giorni scorsi abbiamo visto in televisione e su internet i camion dell’esercito che portavano via le bare dei troppi morti nella nostra città. Bergamo e provincia sono l’epicentro del virus; ci aggiorniamo tra amici, uno di loro mi dice che in un paese qui della bassa ci sono stati 30 morti in pochi giorni e in un piccolo paesino poco distante è andata anche peggio. Nella media Val Seriana non riescono a contarli. I camion dell’esercito sono tornati tre volte, basterebbero gli occhi dei soldati a dire lo sconforto, la paura, l’ansia e noi ormai chiusi in casa siamo soli e impotenti. Il giornale locale, che pubblica gli annunci mortuari, è diventato un caso. Qualcuno l’ha definita la Spoon River di Bergamo, 11 o 12 pagine ogni volta. Si scopre di amare la propria città così. Non l’avevamo mai vista tanto ferita, ma siamo tutti feriti e certo cambiati da questa cosa. Infatti non trovo parole adatte.
Cosa conta ora oltre gli affetti, le persone care e gli amici vicini e lontani?
Lavarsi bene le mani, guardare il sapone, l’alcol etilico, i gel per le mani, i guanti e le mascherine come se non fossero più solo cose da usare. Cose comuni in fondo e ora le più indispensabili.
Si fa la spesa una volta a settimana, massimo due se serve la farmacia e gli scaffali vuoti sono quelli dei disinfettanti e a volte dei saponi. Allora a casa si raziona.
Di colpo ci è vietato quasi tutto. Un po’ dal buon senso e un po’ dai decreti.
Quando si attenua questo dolore mi chiedo cosa succederà dopo.
Molti di noi hanno lottato una vita per i diritti civili e i diritti del lavoro e non è senza preoccupazione che guardiamo al domani. Perché se col virus non c’è vita, non poter uscire dal comune di residenza neanche per la spesa, anche se il supermercato più accessibile è sul confine tra un comune e l’altro, è assurdo.
Sono i primi giorni a casa. Prima andavo in fabbrica. Erano tutte aperte, ora in parte sono chiuse.
Andavano solo le linee dove si lavora sempre distanziati. C’erano mascherine, guanti, alcol e sapone, ma lo stesso l’incertezza era tanta. Gli ultimi giorni ho evitato la mensa, camminavo in cortile mangiando un panino e poi sempre un’occhiata al cellulare aspettando notizie dalla famiglia.
Sui balconi vedo tante bandiere italiane. Qualcuno i primi giorni si è messo il cappello da alpino. Gli alpini da noi sono come i beati padri per i devoti. Stanno allestendo l’ospedale da campo con i tifosi dell’Atalanta. Ho visto fotografie dove un tifoso del Brescia abbraccia un tifoso dell’Atalanta. Se le sono sempre suonate, ora si alleano per queste due città colpite in maniera così pesante.
Alcuni mi chiedono perché Bergamo; non lo sa nessuno. Certo non ha aiutato avere tre aeroporti internazionali vicinissimi (Malpensa, Orio, Linate), migliaia di fabbriche con un traffico di camion e corrieri da tutta Europa; non ha aiutato non avere creato subito ad Alzano Lombardo e Nembro la zona rossa, proprio per compiacere gli industriali; non ha aiutato l’assalto ai supermercati, come il rito degli aperitivi nei tanti bar affollati dopo la chiusura degli uffici; e le tante palestre, la partita di Champion League giocata dall’Atalanta contro il Valencia e forse tante altre piccole insignificanti cose.
Ora il silenzio e il vuoto sono sempre; sono tutto. E’ come guardare verso la morte e capire la nostra fragilità; è quello che abbiamo di più forte. Ci renderà generosi o di nuovo ciechi.
La vita e la morte restano comunque una domanda.
Intanto un’amica mi chiama dalle Marche, altra regione in sofferenza, mi racconta di chi è ancora nei container del dopo terremoto. Un dopo infinito. Hanno cucine e bagni in comune. Come faranno? E mi chiedo: qualcuno che dovrebbe sapere lo sa?
Nadia Agustoni (1964) scrive poesie e saggi. Suoi testi sono apparsi su riviste, antologie, lit-blog. Del 2017 è I Necrologi La Camera verde, del 2016 è Racconto Aragno, del 2015 Lettere della fine Vydia editore premio ex equo Bologna in Lettere Interferenze 2017, e la silloge [Mittente sconosciuto] Isola Edizioni; del 2013 è il libro-poemetto Il mondo nelle cose (LietoColle). Una silloge di testi poetici è nell’almanacco di poesia Quadernario (LietoColle 2014). Nel 2011 sono usciti Il peso di pianura ancora per LietoColle, Il giorno era luce, per i tipi del Pulcinoelefante, e la plaquette Le parole non salvano le parole, per i libri d’arte di Seregn de la memoria. Del 2009 la raccolta Taccuino nero (Le voci della luna). Altri suoi libri di poesie, usciti per Gazebo, sono: Il libro degli haiku bianchi (2007), Dettato sulla geometria degli spazi (2006), Quaderno di San Francisco (2004), Poesia di corpi e di parole (2002), Icara o dell’aria (1998), Miss blues e altre poesie (1995), Grammatica tempo (1994). Vive a Bergamo.