La puntata di oggi si intitola "Il marketing della liberazione"
questo il testo:
"La pubblicità ha sempre promesso le stesse cose: benessere, felicità, successo.
Ha venduto sogni e proposto scorciatoie simboliche per una rapida ascesa sociale.
Ha fabbricato desideri raccontando un mondo di eterne vacanze, sorridente e spensierato.
La pubblicità ha venduto di tutto a tutte/i, indistintamente, come se la società fosse senza classi.
Oggi, ha mutato pelle. Oggi, ogni prodotto, dalla macchina alle scarpe, passando per le bibite e altro, tutto è presentato come un elemento distintivo per una gioventù ribelle.
Ci sono le pubblicità che vogliono ridare il potere al popolo, altre che vogliono sovvertire le leggi del mercato, tutte inneggiano alla rivoluzione.
Oggi, la cultura commerciale è “ribelle”.
La rivoluzione passa attraverso le scarpe che porti, la bibita che bevi. Il nuovo, solo perché tale, è “rivoluzionario” e, come tale, il comprarlo e l’usarlo sostituisce le pratiche di lotta.
Il meccanismo è semplice.
Si identifica una convenzione sociale, che non metta in discussione lo status quo,, né i rapporti di classe , né la società e la si destruttura e, grazie a questa destrutturazione, le ditte vendono e la società rimane sempre la stessa.
La sconfitta della lotta di classe, in questo paese, e la dimensione “ buonista “ e conservatrice della sinistra socialdemocratica, ha schiuso ai pubblicitari la porta delle nicchie culturali che erano proprie della sinistra e il cui carisma e la cui forza evocativa vengono ora utilizzati per altri scopi.
C’è la ditta che lotta contro il razzismo, quella che si presenta come il simbolo del non conformismo, l’altra della rivolta adolescenziale e ancora quella della rivoluzione sessuale.
Le marche hanno, ormai, sostituito i movimenti.
Siamo al trionfo del marketing della liberazione.
Secondo questa filosofia, per liberarci da questa società, dobbiamo andare a mangiare nei ristoranti etnici, comprare nei negozi equosolidali, comprare i dischi di Lady Gaga e, magari, aderire a questa o quella lettura della sessualità e delle pratiche esistenziali, presentate come liberatorie e rivoluzionarie.
Il trionfo del capitale: rabbia,insoddisfazione,ricerca di altro, li ha saputi mettere al servizio dei propri interessi, creando un bisogno di identificazione con nuovi stereotipi culturali.
Il capitale attraverso la pubblicità riesce a riplasmare la realtà sociale secondo una visione immaginaria della società.
I giovani disoccupati delle periferie urbane impersonano una sorta di lotta tra una marca e l’altra di scarpe da ginnastica.
Pubblicità, stereotipi culturali vincenti, diventano uno strumento di trasformazione della coscienza sociale.
Donne e uomini che, nei messaggi pubblicitari e nelle rappresentazioni mediatiche, vediamo, senza distinzione gerarchica, al lavoro e a casa e, magari, nelle nuove inclinazioni sessuali, in realtà nascondono la fine del lavoro a tempo determinato, l’apologia della precarietà, il rilancio dei ruoli.
Le aziende che vivono sfruttando il lavoro minorile o producono materiali bellici o distruggono l’ambiente nei paesi del terzo mondo, omettendo bellamente questi aspetti e rappresentandosi come altro, concorrono alla schizofrenia di questa società che dice di essere sensibile a questi temi, ma li disattende quotidianamente nella pratica. Contemporaneamente, il tabù del sesso viene largamente sfruttato da quando si è scoperta la correlazione tra desiderio sessuale e pulsione all’acquisto, e il legame tra pratiche sessuali non usuali e malinteso concetto di rivoluzione e liberazione. Allo stesso tempo, resta fermo lo stereotipo della donna che è oggetto di piacere o soggetto domestico che, anche quando è emancipata e lavora fuori casa, è lei stessa che sorveglia la sua abbronzatura, l’odore delle sue ascelle, i riflessi dei suoi capelli, la linea del suo reggiseno o il colore delle sue calze.
Il mondo è quello che è ,pieno di ogni bruttura, ma noi ci possiamo “autoassolvere” perché beviamo un prodotto che è sinonimo di libertà, perché vestiamo casual o perché facciamo sesso fuori dal coro.
Facciamo pure quello che ci pare, perché quello che ci piace, proprio perché ci piace, è buono, ma lo è, naturalmente, per noi che lo facciamo e ci piace, ma, non parliamo di libertà, di rivoluzione, di cambiamento della società.
Questa configurazione sociale si caratterizza nella preminenza progressiva della merce su ogni altro elemento e nella mercificazione di tutti i rapporti, compresi quelli sociali ed affettivi, nella cultura che viene ridotta a mode che si susseguono, con l’apparire esibizionistico che prende il posto dell’autonomia individuale, nell’appiattimento della storia stessa sull’evento immediato e l’informazione istantanea, nella fuga dal conflitto sociale e nella disaffezione dalla politica, nella strumentalizzazione delle lotte di liberazione e delle diversità.
E, allora, ricordiamoci sempre,che ,se la borghesia è in grado di appropriarsi di parole, contenuti e sogni che ci dovrebbero appartenere è il caso che ci chiediamo dove stiamo sbagliando."
Elisabetta