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transfemminismo

Quell* che non hanno il genere, ma hanno la classe" del 28/01/2015 "La miseria del sovversivismo"

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“La miseria del sovversivismo”

  Immagine rimossa.Si creano spesso polemiche su quali scelte siano rivoluzionarie, o quantomeno le più sovversive da farsi, e viceversa. Credo che questo dibattito non abbia niente di politicamente produttivo e abbia tutto di alienante per ogni parte coinvolta. La “sovversività” di qualcosa dipende dal contesto in cui quel qualcosa viene agito – e perciò si può attribuire ad un azione o un discorso un carattere sovversivo soltanto in una contigenza ben precisa, poiché questi sono un prodotto storico e culturale di determinante circostanze; queste stesse circostanze ne determinano il significato e, ne consegue, l’eventuale divergenza dallo stato di cose presenti e dall’egemonia culturale attuale.

Adottare uno sguardo intersezionale mette in luce l’inconsistenza di questa idea, dal momento che ne smaschera la pretesa di universalità. Come si può dire ad esempio cosa è sovversivo per una donna fare se già soltanto tenendo in considerazione la diversità tra donne bianche e quelle che non lo sono l’esperienza cambia profondamente e con lei anche l’ipotetico da farsi rivoluzionario? Per le bianche è stato sovversivo uscire dalle mura di casa e farsi strada nel sociale, nel pubblico; per le non bianche si può dire altrettanto, quando la schiavitù coloniale andava a colpirle proprio recidendo ogni tipo di legame familiare?

L’idea di una scelta sovversiva mi richiama alla mente, nella sua ingenua socialdemocraticità, un’altra idea, che è anche una pratica: quella del consumismo etico. Entrambe postulano prima di ogni cosa che sia possibile scegliere e che dal momento che è possibile scegliere, la scelta da fare è quella che viene posizionata come eticamente (e quindi politicamente) auspicabile.  Ci sono buoni motivi per dubitare che questa possibilità di scelta esista e ce ne sono altrettanti per sconfessare l’imprescindibilità di certe scelte, e cito quella che mi sembra più significativa: il rischio ahimè piuttosto concreto di una critica che continui a vertere inutilmente sul gesto individuale senza tenere minimamente conto né delle sue ragioni né del contesto in cui si svolge, perseguendo un ideale fascista di coerenza più vicino al martirio che alla lotta contro ogni forma di oppressione.

Il sovversivismo non è un -ismo per come lo concepiamo di solito, cioè  discriminazione, oppressione, ostilità aperta o sottile e molto altro che riguarda una specifica categoria di soggetti umani o non umani in maniera sistematica. È più un modo di pensare teso alla trasgressività compulsiva. Julia Serano in Whipping Girl lo definisce in maniera molto più precisa e contestuale all’ambiente femminista e queer: il sovversivismo è la pratica di esaltazione di certi generi, certe espressioni sessuali e certe identità semplicemente perché sono non convenzionali o non conformi. Serano dice:

In superficie, il sovversivismo dà l’apparenza di ospitare una serie apparentemente infinita di generi e sessualità, ma questo non è proprio il caso. Il sovversivismo ha confini molto specifici; ha un “altro”. Glorificando identità e le espressioni che sembrano sovvertire o sfocare i binari di genere, il sovversivismo crea automaticamente una categoria reciproca di persone le cui identità di genere e sessuali e le espressioni sono di default intrinsecamente conservatrici,  addirittura “egemoniche”, perché sono viste come rinforzo o naturalizzazione del sistema del binarismo di genere.

Julia Serano, nel suo libro, lo usa per descrivere come gli atteggiamenti sovversivisti si manifestino negli spazi queer e trans contemporanei, in cui i maschi / le identità transmaschili sono visti come più sovversivi rispetto a quelle femminili / transfemminili , e dove le identità e le espressioni (ad esempio le pratiche legate al drag, l’essere genderqueer) che sfocano il genere sono viste come più sovversive di quelle identità considerate binarie (ad esempio, donne e uomini transessuali).

Un altro esempio di questo atteggiamento è costituito dall’esclusione delle persone bisessuali, giustificata per l’appunto con argomentazioni risibili quali il rafforzamento del binarismo di genere, il quale deriva dall’errata considerazione che l’interpretazione letterale dell’etim0logia di una parola ne indica il significato odierno. Se bisessuale è un esercizio di binarismo per via del fatto che bi significa due, allora le lesbiche provengono dall’isola di Lesbo, percependo salari in cloruro di sodio. Bisessuale, proprio come omosessuale e transessuale, è una parola nata nel contesto medico e reclamata dalla comunità arcobaleno, perciò il suo binarismo vero o presunto non è affibbiabile alla c0munità, agli individui che ne fanno parte e all’identità romantico-sessuale che rappresenta, specie se una parte considerevole delle organizzazioni e comunità di persone bisessuali adottano una definizione di bisessualità che binarista non è. Se pensiamo altrimenti, dovremmo accusare coloro che si definiscono omosessuali di autopatologizzarsi. C’è un binarismo di genere, certo, ma  le accuse di rinforzo arrivano a una comunità piuttosto marginalizzata. È curioso che tutti si preoccupino di chi per davvero o per finta rafforza il binarismo senza preoccuparsi di chi, in primo luogo, l’ha edificato nei corpi e nelle esperienze. Questi censori sono funzionali alla guerra intracomunitaria, al mantenimento del mortifero dominio eterosessista, e sono considerevolmente responsabili dell’indisturbato proseguire delle ingiustizie inquadrate dalle agghiaccianti statistiche che riguardano le persone bisessuali. Ma ritorniamo a noi.

Quello del “rinforzo” è un mito, prodotto proprio dal binarismo di radicalità/non-radicalità, il sovversivismo appunto, attuato da soggettività che nel tentativo di abbattere gerarchie ne costruiscono altre, generando un’altra diversità, un nuovo “altro da sé”, che si suppone conservatore e per questo è considerato cattivo; inoltre, un grosso pericolo del sovversivismo risiede nel fatto che esso genera un processo di esclusione di ciò che sembra meno trasgressivo, atipico, non convenzionale e poi si rende complice della sussunzione neoliberista della gettonata controparte “sovversiva” commerciandola, perciò  depoliticizzandola e depotenziandola nelle sue già scarse potenzialità. Infine, esso si accompagna quasi inevitabilmente alla ricerca della purezza militante individuale, un mostro  che trasforma la solidarietà in competizione e l’azione diretta in mania di protagonismo, cuocendo ogni potenzialità di cambiamento sociale nel brodo di un più che disumano ultraindividualismo celolunghista. E questo è quanto mi basta per rifiutarlo con tutto me stesso.

 

http://coordinamenta.noblogs.org/post/2015/01/29/la-miseria-del-sovversivismo/

"Quell*che non hanno il genere,ma hanno la classe" del 26/11/2014

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http://coordinamenta.noblogs.org/post/2014/11/27/il-tabu-della-poverta-langoscia-e-il-silenzio-che-non-sopporto-piu-2/

Da “I Nomi delle Cose” del 26/11/2014

Quell* che non hanno il genere, ma hanno la classe,la rubrica di Denis ogni ultimo mercoledì del mese

“Il tabù della povertà, l’angoscia e il silenzio che non sopporto più”

Immagine rimossa. Ho un problema. Anzi, ne ho molti, che alla fine ritornano tutti alla stessa origine: soldi, o meglio mancanza di. Sono nella stessa situazione (o forse in una peggiore, per certi versi, a causa di alcune mie particolari condizioni, alcune esistenziali ed altre patologiche) di moltissime altre persone che vivono in Italia, in Europa e in ogni altro paese del pianeta Terra: sono affetto da un caso letale di pezze ar culo.

Mio padre faceva l’operaio in un magazzino adibito alla vendita di materiale edile, luogo che a Roma prende il nome di smorzo. Suo principale era un soggetto dotato dei più deleteri tratti dell’umana persona:  piccolo borghese tuttavia privo di qualsivoglia capacità imprenditoriale,  soleva tenere in soggiorno un busto del duce, del quale si prendeva cura con la stessa alacrità che lo stereotipo sessista della casalinga di Voghera riserverebbe al suo servizio da té. Bene: caso – ma soprattutto economia – vuole che lo smorzo dove il mio genitore paterno ha lavorato per un paio di decenni abbia chiuso i battenti esattamente un anno fa. Non prima di averlo costretto per mesi a ricevere buste paga nanoscopiche e assolutamente inadeguate al mantenimento di una famiglia di quattro persone; l’odio di classe è una cosa che va fatta per bene, e nessuno può saperlo meglio di un padrone.

Quest’estate, dopo un anno e mezzo di depressione galoppante, ho avuto modo di incominciare una psicoterapia (che attualmente proseguo, ma non riesco a pagare) che mi ha dato modo di far luce su un po’ di cose di me e del contesto, sia familiare che scolastico, in cui ho avuto modo di far crescere con varie storture di percorso i miei tessuti organici, muscolari-scheletrici e cerebrali. Colto da illuminazione, realizzo che di fare grafica pubblicitaria – scuola che avevo abbandonato senza alcun rimorso – non m’è mai importato più di tanto e che la mia strada è totalmente altrove. Corro dunque ad iscrivermi alle serali di un ITIS dotato, con mia somma gioia, dell’indirizzo elettronica e telecomunicazioni. Faccio piccoli passi per riprendere in mano, nella misura in cui mi è possibile, le redini della mia esistenza. Ma veniamo ad oggi. Fra un mese finiscono i soldi dell’INPS, e sono qui davanti a uno schermo che cerco di non schiattare immantinente, schiacciato dal peso di tutti i bisogni vitali che ho e non sono in grado di soddisfare.

Ad esempio sono affetto da quella che molto probabilmente è la sindrome dell’intestino irritabile, la quale porta con sé vari regali. Il suo dono più recente sono emorroidi prolassate che mi tengo da più di un mese e mezzo, e che noto, tattilmente, essersi ingrossate. Soffro di psoriasi, ansia e attacchi di panico. Molto probabilmente ho l’ovaio policistico, o qualcosa di analogo, viste le mestruazioni totalmente irregolari, nel tempo e nella quantità, e delle carie che non posso rimuovere. Vorrei perdere peso in quanto ampissimamente al di sopra del mio peso forma, ma vallo a trovare un nutrizionista gratis; starei anche cercando di andare in palestra, che continuo a pagare tramite un finanziamento precedentemente stipulato, ma a causa del mio abnorme calo di energie dovuto alla mia situazione psicologica sono di fronte all’impossibilità materiale di farlo ora; in ogni caso, le finanze prestatemi per fare elettrocardiogramma e certificato sono state investite in spese di sopravvivenza relative a cibo di discutibile qualità e basso prezzo, nonché cure veterinarie per uno dei miei gatti, il cui malore ha determinato un’emozione nel sottoscritto che, sempre a Roma, è nota ai più come coccolone. Inoltre, essere un ragazzo transessuale implica, per il mio benessere mentale, l’atto di procurarmi un endocrinologo e un avvocato che faccia gratuito patrocinio, per poter dapprima accedere alla possibilità di operarmi e in seguito ottenere dei documenti senza i quali ogni interazione sociale a sfondo anche lievemente burocratico-formale è l’inferno in terra. Nel caso non fosse già evidente, non ho soldi per fare niente di quello che mi servirebbe; aggiungo che, nonostante sia passato un bel po’ di tempo da quando è venuta a mancare la principale fonte di reddito del mio nucleo familiare, non risultiamo ancora nei database della gente papabile per l’esenzione, il che va a determinare un tragico paradosso dai connotati grossolanamente kafkiani: non posso usufruire né del servizio sanitario nazionale (dai tempi che rimangono in ogni caso eterni, e dalla qualità sempre più bassa) né di quello privato.

Non ho neanche modo di procurarmelo da solo, il reddito. I miei genitori hanno rispettivamente la terza media e la quinta elementare, e in un lasso temporale in cui è difficile farsi assumere anche qualora si avessero nel curriculum vitae due lauree con annessi master, corsi professionalizzanti più ogni altra esperienza formativa concessa in giro per le terre emerse italoparlanti, potete immaginare cosa significa. Le mie forze sono già divise perlopiù tra la mia ansia debilitante e il percorso di studi appena intrapreso, perciò non posso lavorare granché, e anche le volte in cui sono in grado, reperire chi abbisogna le mie prestazioni non è così semplice: specie per qualcuno che non ha mai messo piede nel mondo del lavoro, né subordinato né autonomo. Un livello aggiuntivo di difficoltà è rappresentato dal fatto che essere trans porta inevitabilmente, in questa società, conseguenze di carattere anche relativo all’impiego (non è un caso che la percentuale di disoccupazione sia così elevata tra le persone trans). È ancora più difficile tenendo conto del fatto che mi mancano persino i mezzi con cui offrirle, le prestazioni – sono infatti privo di un computer di mia proprietà che risponda alle caratteristiche necessarie per l’utilizzo in questo senso. Vivo peraltro sotto un tetto che, se venisse attuato il decreto Renzi-Lupi, non avrei più, poiché si tratta di una casa popolare. Tutto ciò mi uccide, nel significato più letterale di questa espressione. Perché condurre un’esistenza priva della più vaga parvenza di dignità è un potentissimo incentivo al desiderio di schiattare; che in realtà non avrei nemmeno, perché voglio vivere. Solo non ho intenzione di farlo in questa maniera.

Per quanto il tono utilizzato possa darne l’idea, non sto scrivendo la lettera di un suicida. Intendevo dire qualcos’altro: mi sono fratturato i coglioni, e non voglio sentirmi dire povero, o essere compatito. Non ne posso più del silenzio tombale collettivo che avvolge l’esistenza delle persone povere, disoccupate, proletarie e sottoproletarie; esperienze delle quali non posseggo certo l’esclusiva. Sono stufo del fatto che certe grida debbano esaurirsi in angosciate chiacchiere tra di noi, dove noi corrisponde al proprio circolo di amicizie, amori e compagneria assortita. È mai possibile che qui si viva una violenza sociale di un’estensione mai vista e che si tratti l’argomento come se fosse un imbarazzante pettegolezzo di condominio? È ridicolmente triste e ingiusto. Può non sembrare così, ma la presente è un’accusa che rivolgo in primis a me stesso. Sono il primo a vergognarsi di chiedere aiuto, in qualsiasi forma: ci ho messo un mese per esprimere il pensiero che sto esprimendo adesso. Mi viene detto che non sono l’unico, ma questo non mi fa stare meglio, mi fa stare peggio: sento il peso della responsabilità militante su di me e mi chiedo cosa facciamo, anzi, cosa non facciamo. In virtù del fatto che una delle poche cose che sono certo di fare bene è usare le parole, racconto di quello che mi è attorno nella speranza che inizi davvero a smettere di essere l’unico, perché se delle esperienze non si parla e non si sa nulla, quelle finiscono per non esistere.

Questa è guerra e nessuno sembra agire di conseguenza, se non il nemico. Servono case, mense, ambulatori, scuole e doposcuola, biblioteche, lavanderie, internet point e ogni forma possibile di spazio sociale e culturale autogestito.  Servono compagne e compagni che si occupino di fornire allacci di acqua, gas ed elettricità a chi non può più permetterseli. Dopo le lacrime per gli imprenditori impiccati bisogna tirarsi su le maniche per chi, acqua al collo, non può concedersi cerebralmente nemmeno per un secondo quell’ipotesi. Dove siamo, dove siete? Io aspetto, qui, una soluzione per me ma non soltanto per me, chiedendomi quando arriverà. Ora provo a dormire, insonnia permettendo.

Denis/Frantic

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