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sessismo

Con Nadia e le altre, contro la violenza maschile e contro tutti i Cie!

Data di trasmissione

Nadia è una ragazza di 19 anni che è detenuta da due mesi nel Cie di Ponte Galeria, il lager alle porte di Roma in cui lo stato italiano rinchiude le persone immigrate senza il permesso di soggiorno.
Ma Nadia in realtà non è "propriamente" un'immigrata: è un'italiana che vive sotto il ricatto del permesso di soggiorno. Lo stato la considera una straniera, da rinchiudere ed espellere, perché è nata in Italia da genitori marocchini.
Una doppia violenza, che si aggiunge a quella patriarcale subita all'interno delle mura domestiche.
Nadia e sua sorella, infatti, avevano denunciato il padre per violenza. E dal carcere il padre le ha “espunte” entrambe, per vendetta, dal rinnovo del permesso di soggiorno.
Inizialmente affidata a una casa-famiglia, Nadia è fuggita per costruirsi autonomamente la vita che desiderava, ma si è ritrovata senza documenti ed è stata rinchiusa nel Cie.
Dopo aver subito la violenza maschile, ora Nadia subisce anche quella dello stato che le nega la libertà personale e rischia di essere deportata in Marocco, il paese di origine dei suoi genitori, in cui in realtà lei non è mai stata.
 
Non solo Nadia, ma tutte le donne rinchiuse nel Cie di Ponte Galeria sono vittime di una doppia violenza, patriarcale e statale, proprio come lei.
La maggioranza delle detenute sono infatti vittime di tratta, che hanno trovato nella prostituzione forzata l’unica via di accesso a un percorso migratorio. Mentre le altre spesso sono rinchiuse nel Cie perché – come Nadia, Adama, Faith e le altre di cui non sapremo mai nulla – sono state così “ingenue" da chiamare la polizia per denunciare uno stupro o un tentato stupro: si aspettavano di essere sostenute e invece hanno trovato solo gabbie e recinti, ulteriori violenze e la prospettiva di una deportazione forzata.
 
In questi ultimi tempi il dibattito politico italiano si è concentrato spesso sulla possibilità di attribuire i diritti di cittadinanza ai figli e alle figlie dell'immigrazione. Paradossalmente, ne ha parlato anche il presidente Napolitano, tristemente noto per aver dato il nome alla legge che ha istituito gli ex Cpt, oggi Cie (la legge Turco-Napolitano del 1998). Ma negli interventi che abbiamo ascoltato i diritti sembrano riservati solo a chi si comporta come un "bravo cittadino integrato", che aderisce acriticamente ai valori dell’italianità, senza mettere in discussione il potere esercitato dallo stato capitalista. Tutti gli altri sono considerati clandestini da sfruttare, rinchiudere e deportare.
 
Anche i casi di violenza domestica e di femminicidio che hanno coinvolto le comunità migranti sono stati spesso al centro dell'attenzione mediatica, proprio allo scopo di rinforzare la retorica dello scontro di civiltà, che serve a giustificare le politiche islamofobe, xenofobe e securitarie. Gli uomini immigrati sono rappresentati come stupratori che minacciano il corpo delle donne italiane, mentre le donne immigrate (specie se musulmane) come vittime di padri violenti e famiglie retrograde. Ma il movimento femminista ha saputo smascherare la strumentalizzazione e l'etnicizzazione dello stupro, affermando con decisione che il patriarcato è universale e che la violenza domestica non ha confini e non dipende dal passaporto.
 
Nadia è una giovane donna che ha avviato un percorso di autodeterminazione, ribellandosi sia alla violenza maschile che a quella dello stato.
Nadia – così come tutte le altre donne recluse che subiscono la violenza statale e patriarcale – non deve passare un minuto di più nel lager di Ponte Galeria!
Mentre scriviamo ci arriva proprio da Nadia la notizia che oggi pomeriggio uscirà dal Cie.
Condividiamo la sua gioia per l'imminente liberazione ma continuiamo a lottare al fianco di tutte le altre donne recluse nei lager di stato.
 
Nadia libera!
Libere tutte! Liberi tutti!
Chiudere tutti i Cie! Abbattere le frontiere!
 
Silenzio Assordante (Radio Onda Rossa)


 

Connessioni tra violenza razzista e violenza sessista

Data di trasmissione
Durata 18m 20s

La violenza razzista e qualla contro le donne hanno molti punti in comune. Identificarli ci serve a rafforzare le analisi e la capacità di lotta.

Una riflessione a partire dalla devastazione di un campo roma a Torino, in difesa della verginità di una ragazza italiana, per arrivare al duplice omicidio di due senegalesi a Firenze.

 

Le ragazze di Asmara

Data di trasmissione
Durata 1h 4m 18s

 

Nella puntata di lunedì 5 dicembre 2011, abbiamo ospitato negli studi di Radio OndaRossa Sabrina Marchetti, autrice del libro Le ragazze di Asmara. Lavoro domestico e migrazione postcoloniale, appena pubblicato nella collana sessismoerazzismo dell'editore Ediesse, e Chiara Ronchini, co-regista insieme a Lucia Sgueglia del documentario Good morning Abissinia (Italia, 2005, 40’).

 

Il documentario, girato nel 2004 nelle strade intorno alla stazione Termini, da sempre luogo di incontro della comunità etiope ed eritrea di Roma, narra un viaggio dalla speranza alla disillusione, in cui l’Italia, vista da Asmara e da Addis Abeba quasi come una sorella, si trasforma in una terra "matrigna".

 

Nel libro, il viaggio da Asmara a Roma è raccontato attraverso le voci delle donne eritree arrivate in Italia negli anni sessanta e settanta per lavorare come domestiche nelle famiglie romane, intervistate da Sabrina Marchetti nell'ambito di una ricerca sulle migrazioni e sul lavoro femminile. Le «ragazze di Asmara» sono state le prime straniere impegnate in un lavoro che caratterizza tuttora la migrazione femminile nel nostro paese ma, a differenza delle donne di altre nazionalità (filippine, capoverdiane, peruviane), sono arrivate qui perché noi eravamo là: dunque la loro identità si costruisce a partire dall’esistenza di un passato legame coloniale fra l’Italia e il proprio paese di origine.

 

In entrambi i casi, nel libro e nel documentario, l'autonarrazione diventa una strategia di resistenza e di rovesciamento delle gerarchie di potere tra colonizzati e colonizzatori: quella che ci viene offerta è una lezione di storia dal basso, dal punto di vista delle soggettività che sono sempre state ridotte al silenzio. Inoltre, i lavori delle nostre ospiti ci permettono di tracciare un filo che unisce in maniera indissolubile il nostro passato coloniale alle migrazioni contemporanee.

 

Le ragazze di Asmara sarà presentato venerdì 9 dicembre alle 19.00 a "Kespazio! per una ricerca queer e postcoloniale", il nuovo caffé letterario della Casa internazionale delle donne, nell'ambito di un incontro dal titolo Asmara-Roma andata e ritorno. Viaggi, architetture e storie rimosse, nel corso del quale sarà proiettato, oltre al documentario di Chiara Ronchini e Lucia Sgueglia, anche il film Ainom, di Mario Garofalo e Lorenzo Ceva Valla (Italia, 2011, 94’).

 

La colonna sonora di questa puntata di Attica Blues è una raccolta di gemme portate dalla schiavitù: musica nera che spazia da una sponda all'altra dell'Atlantico Nero, a partire da 400 Years di Bob Marley fino a Fight Apartheid di Peter Tosh.

 

Questa è l'ultima puntata di Attica Blues che va in onda il lunedì sera perché dalla prossima settimana avremo un nuovo orario. A partire da giovedì 15 dicembre, saremo in diretta su radio OndaRossa ogni giovedì pomeriggio dalle 16 alle 17.

 

 

Corpi neri in vendita: pubblicità razziste #2

Data di trasmissione
Durata 1h 27m 35s

 

Nella puntata di lunedì 19 settembre 2011, proseguono le nostre riflessioni sulle pubblciità razziste iniziate la settimana scorsa. In particolare, stavolta ci concentriamo sull'intreccio fra razzismo e sessismo, analizzando le rappresentazioni dei corpi delle donne nere nelle pubblicità diffuse nell'Italia contemporanea e rilevando anche la riproposizione di immagini stereotipate che risalgono a una mentalità schiavista e coloniale. Alcune delle immagini di cui parliamo si possono vedere qui e qui.

Stelle di Polvere – Stereotipi di genere nei media_2

Data di trasmissione
Durata 1h 3m 31s

 

Ascolta la seconda puntata del ciclo “Stelle di polvere – Stereotipi di genere nei media”.
Continuiamo a parlare dei prodotti di abbiagliamento per l’infanzia: strategie di sessualizzazione precoce, divisione dei ruoli e forme di rappresentazione del corpo di bambine e bambibi.
Guarda le immagini di cui si parla in trasmissione.

Intervista a Tanya Stephens

Data di trasmissione
Durata 1h 9m 31s

 

nella puntata di lunedì 5 marzo 2007:

 
Intervista a Tanya Stephens
Venezia, 17 febbraio 2007
 
Parlaci del tuo nuovo album: Rebelution (VP 2006). Mi piace molto il testo del brano Do you still care, anche perché è la prima volta che un’artista giamaicana parla così esplicitamente dell’omofobia, paragonandola ad ogni altra forma di razzismo… Puoi spiegare al pubblico italiano perché hai scritto questa canzone?
 
«Sentivo il bisogno di scrivere una canzone sull’argomento, perché sono giamaicana, e… sfortunatamente, qualunque artista giamaicano si ritrova cucito addosso lo stigma che è stato creato dagli artisti giamaicani stessi. E visto che questi artisti, per affermare se stessi, finiscono per creare un’immagine negativa di ognuno di noi, ho sentito il bisogno di spiegare che loro non rappresentano tutta la Giamaica. Non sono d’accordo con nessun punto di vista che possa essere in qualche modo offensivo o dispregiativo nei confronti di qualsiasi gruppo di persone, e non ho bisogno di avere qualcosa in comune con un singolo gruppo, per poter imparare a rispettare coloro che ne fanno parte e tutte le loro differenze. Questo è il principio in base al quale io vivo la mia vita e suggerisco ad ognuna/o di vivere la propria. Perciò dovevo scrivere questa canzone, anche perché fa parte della mia vita e del mio lavoro: quello che dico fa parte del mio impegno per cambiare il sistema in cui viviamo. Ed è un lavoro duro quello di mostrare la strada con le nostre parole, ma ci sono tante cose che possiamo cambiare. Ci vogliono troppe energie per far cambiare a qualcuna/o le proprie scelte personali [le preferenze sessuali], ed è solo una perdita di tempo. Sono altre le cose per cui vale la pena di lottare, e io dovevo raccontare questa cosa, perché avevo davvero qualcosa da dire».
 
Che tipo di reazione ha avuto il pubblico quando hai cantato questa canzone in Giamaica?
 
«Ho avuto sempre reazioni positive. Ad un certo punto mi sembrava davvero di aver colpito i cuori della gente. Perché la verità è che nel mondo la gente si è fatta davvero un’idea sbagliata della Giamaica, che è terrificante: pensano che la Giamaica sia un paese omofobo, pensano che in Giamaica la gente sia tutta violenta e aggressiva, senza nessuna ragione, ma non è così. Sì, è vero, c’è la criminalità in Giamaica, ma c’è ovunque nel mondo. Sì, c’è la violenza in Giamaica, ma questo non vuol dire che non ci sia niente di positivo. Il popolo giamaicano è composto da gente di tutti i tipi: c’è una comunità gay molto numerosa, c’è gente di ogni razza, di ogni cultura, di ogni nazione, di ogni religione o credenza. Ci sono così tante persone diverse che vivono in Giamaica, e che vivono in pace, e la criminalità è relativamente poca. Io vivo in campagna e non ho mai assistito ad un crimine. So che esiste, e sento il dovere di essere consapevole di tutto ciò che mi succede intorno, perché parlandone posso cercare di essere d’aiuto, ma non ho mai assistito a un crimine e non sono mai stata vittima di un crimine. Io sento di dover parlare di quello che succede in Giamaica, ma Tanya Stephens non rappresenta tutti i giamaicani, così come quei ragazzi [i cantanti omofobi] non rappresentano tutti noi. La comunità gay è molto numerosa in Giamaica. Molti dei miei amici sono gay, ma io non me ne faccio un problema: non mi ero nemmeno accorta che lo fossero, fino a che la questione non è esplosa sui media. Non scelgo i miei amici in base alle loro preferenze sessuali – è casuale e non mi riguarda – e non considero le scelte sessuali come una questione di cui discutere: perché ci sono molte cose più importanti per cui lottare. Ma lasciami dire una cosa: la Giamaica non è come la rappresentano».
 
Sì, ma qui in Italia, noi che amiamo la musica reggae abbiamo un problema…
La nostra realtà è molto diversa da quella giamaicana: noi ad esempio, abbiamo un sound system autocostruito, che è nato proprio per dare voce a chi in questa società è stata/o sempre ridotta/o al silenzio. E abbiamo scelto il reggae proprio per la sua carica rivoluzionaria e per il suo messaggio politico. Perciò per noi c’è una profonda contraddizione, nel vedere che questa musica viene usata per diffondere messaggi di odio e di discriminazione verso qualsiasi forma di diversità…

 
«Io ho lo stesso problema che avete voi. Davvero. Quando ho cominciato ad appassionarmi alla musica, ero un’adolescente. Ho lasciato le scuole dopo le superiori, e la musica era il mio modo di ribellarmi. La mia famiglia mi diceva: vai all’università, trovati un lavoro fisso, vivi una vita normale… Ma io non sono mai stata “normale”. E il reggae era il modo più semplice per ribellarmi contro tutto questo e per dire: io sono qualcosa di diverso da come mi volete voi, vi chiedo solo di lasciarmi essere me stessa. Ed è così che ho cominciato a fare musica: andavo in giro con gli amici, stavamo all’angolo della strada a fumare erba… Ma con questo non voglio suggerire che questa fosse la cosa giusta da fare: dico solo che questo era il mio modo di ribellarmi alle loro imposizioni. Stavo solo cercando un modo per esprimere quello che sono, e l’ho trovato nel microfono. Certo all’inizio c’era anche una certa superficialità nel mio approccio con la musica, mentre adesso che sono cresciuta vedo meglio il lato più vero del reggae. Perciò è triste, ed è molto doloroso per me, sentire persone di altri paesi, che non conoscono la vera storia del reggae, che non conoscono tutti gli artisti che lavorano nell’industria del reggae, eppure ci descrivono come qualcosa di orribile. È triste, perché c’è tanta gente meravigliosa nell’industria del reggae, e invece c’è solo un gruppo molto piccolo, che ha creato quest’immagine [quello degli artisti omofobi]. Perciò provo la stessa delusione che provate voi. Quando vado da qualche parte e mi tocca difendere il reggae, per me è davvero doloroso, perché so che il reggae non si può ridurre all’immagine creata dagli artisti omofobici. Il reggae non è questo: è qualcosa che unisce la gente, è – come hai detto tu – un mezzo per dare voce a coloro che non hanno mai avuto voce. È il modo più facile per esprimersi. È uno dei pochi generi musicali rimasti al mondo che è ancora capace di parlare per coloro che soffrono. Perciò è un ottimo strumento da utilizzare, e il fatto che venga corrotto in questo modo è triste per tutte/i, inclusa me stessa».
 
A che età hai cominciato a cantare?
 
«Intorno ai sedici… diciassette anni. Ero molto giovane».
 
E come hai cominciato? è diventata subito una vera “professione”, oppure cantavi in chiesa o a scuola?
 
«Nooooo… [ridendo] lasciatemelo dire… io rispetto tutte/i ma non sono religiosa. Io andavo alla dancehall, quella era la mia chiesa!
All’inizio era puro divertimento. E quello è il periodo della mia carriera musicale che amo di più: quando andavo alla dancehall, prendevo il microfono per cantare, e non sapevo nemmeno come avrei fatto per tornare a casa.
Ma era così avventuroso, sai. Era davvero puro. E non ero toccata dal business e da cose del genere, che corrompono la musica e limitano la creatività. Era così… un hobby… solo per divertirmi».
 
Con quale sound system hai cominciato a suonare?
 
«Questa è una domanda difficile, perché la maggior parte dei sound system su cui ho cantato agli inizi sono sconosciuti, sono piccoli sound locali, della regione in cui sono nata, S. Mary. Dovunque sentivo che c’era un sound system che suonava, io andavo là e prendevo in mano il microfono. Ma ad un certo punto sono arrivati i sound system più grandi, a chiedermi di suonare con loro, come Kilimajaro. Suonavo con tutti i sound che erano popolari tra la fine degli anni ottanta e gli inizi degli anni novanta. Dovunque sapevo che c’era una discoteca all’angolo della strada, o un sound system che suonava, io prendevo l’autobus e andavo a sentirlo. E se sentivo una buona vibrazione, andavo là e gli chiedevo: hey, posso prendere il microfono? E così ho incontrato un sacco di gente».
 
E con quale sound system preferisci suonare? qual è il tuo preferito?
 
«Questa è una domanda difficile… In realtà non ho un sound system preferito, ma sono molto amica di Kilimanjaro: è davvero una bella persona e ho sempre fatto delle belle chiacchierate con lui, fin da quando ero un’adolescente, e ci parlo bene ancora oggi. Lui è davvero una persona intelligente: è una delle poche persone nella scena della dancehall che sono dotate di buon senso! Perciò con lui è facile fare una conversazione di un certo livello. È una persona vera, per questo mi piace parlare con lui. Perciò forse ho sbagliato a dire che Kilimanjaro è il mio sound preferito: è che mi piace come persona. Ma ascolto tutti i sound system, Exodus, Stone Love, tutti i sound. Certo, non voglio di mancare di rispetto a nessun sound, ma se mi chiedi con quale ho il feeling migliore, di sicuro è Kilimanjaro».
 
C’è un artista con il/la quale ti piacerebbe cantare insieme?
 
«No, non c’è nessun cantante in particolare con cui mi piacerebbe collaborare. Il mio approccio con gli artisti con cui collaboro è basato sul messaggio che vogliamo esprimere: devo trovare qualcuna/o che la pensi come me su un determinato argomento, piuttosto che cercare un grosso nome da mettere sul disco per promuoverlo, ma poi magari viene fuori qualcosa di falso… Preferisco cercare qualcuna/o con cui ho qualcosa in comune, e che può migliorare la canzone, piuttosto che cercare una celebrità per vendere meglio il disco. Non sono proprio quel tipo di artista…»
 
C’è un’altra canzone molto interessante nel nuovo disco, Warn dem, in cui denunci la fame e la violenza che affliggono la società giamaicana, assieme all’incapacità dei politici, che pensano solo ad intraprendere nuove guerre, mentre tu affermi invece la necessità di disarmare i giovani offrendo loro delle opportunità…
 
«Warn dem fondamentalmente è l’espressione di un altro dei principi filosofici in base ai quale io vivo, e cioè che noi tutt@ contribuiamo a costruire l’ambiente sociale in cui viviamo. Ognuna/o di noi contribuisce, anche se non fa nulla, perché se tu fai qualcosa puoi contribuire a fermare qualcos’altro che sta succedendo. Ognuna/o di noi contribuisce in qualche modo. E io volevo solo dire esplicitamente a tutte/i: facciamo qualcosa insieme, vi avverto, perché anche se voi non volete affrontare il problema, comunque il problema coinvolgerà anche voi. Se c’è un problema, non è mai colpa di una singola persona, tutt@ siamo responsabili, me compresa. Io vivo lì, perciò devo contribuire a risolvere i problemi, come ogni altra singola persona. Perciò dico solo: dai, cerchiamo di affrontare insieme i problemi».
 
Ma allora qual è, secondo te, la soluzione ai problemi della Giamaica?
 
«Non c’è mai una sola soluzione per così tanti problemi. Ma io credo che il primo problema da affrontare sia l’analfabetismo, che è una piaga nel nostro paese. Io credo che se noi cominciassimo dall’istruzione dei nostri bambini, risolveremmo già un problema annoso. Poi è chiaro che dovremmo fare un piano a lungo termine, perché non ci sono soluzioni immediate per i problemi che ci affliggono. Nell’ambito educativo, dovremmo cominciare dai più giovani. Nell’ambito sociale, dovremo cominciare ad insegnare alla gente ad accettare e a rispettare le altre persone e il loro spazio. E dovremmo cominciare ad insegnare l’armonia e l’amore… Negli anni settanta era una cosa grande, con gli hippy che parlavano di pace e amore, ma ora sembra che sia tutto finito, superato, mentre invece dovremmo tornare a insegnare semplicemente alla gente ad amarsi e a rispettarsi l’un l’altra/o. Perché se ami una persona non le fai del male, e rispetti il suo spazio. È una cosa molto semplice, ma funzionerà. E io sento che dovremmo cominciare dai giovani, perché gli adulti… sono cause perse! Non si può fare niente con loro. Ma se cominciamo dai bambini, dalle scuole, dai genitori, insegnando loro dei nuovi modi… abbiamo solo bisogno di cambiare la nostra cultura: la cultura è lo stile di vita della gente, non è qualcosa di fissato una volta per tutte, ma è il modo in cui vivi. Perciò, in qualsiasi modo vivi, quella è la tua cultura, non c’è bisogno che rimanga per sempre la stessa cultura della tua bisnonna. Anche perché lei viveva in un’altra epoca, quindi tu non devi fare le stesse cose. Perciò abbiamo bisogno di cambiare tutte quelle cose che non funzionano, senza problemi. Io stessa mi sono re-inventata diverse volte, e non ho rimpianti per questo. Amo quello che ho fatto quando ero un’adolescente, ma so di non esserlo più: adesso ho 33 anni, e so di non poter vivere più in quel modo, devo trovare una nuova me stessa da adulta… E io credo che con la società dobbiamo comportarci allo stesso modo, se vogliamo risolvere i nostri problemi».