Due collegamenti con due compagne di Non una di meno Roma e Palermo in vista del corteo del 23 Novembre.
DI seguito il comunicato:
abato 23 novembre, la marea sale!
Manifestazione nazionale a Roma e a Palermo contro la violenza patriarcale.
Non Una di Meno!
È passato un anno dal femminicidio di Giulia Cecchettin e altri nomi si sono aggiunti, e rimasti anonimi, di ragazze, adulte, anziane, persone trans uccise.
Ad oggi sono 104 i femminicidi, trans*cidi e lesbicidi registrati nel 2024 dall’Osservatorio (https://osservatorionazionale.nonunadimeno.net/).
È passato un anno dalla marea che lo scorso anno ha paralizzato Roma e Messina con la potenza di centinaia di migliaia di corpi: non ci siamo mai fermate, la nostra rabbia resta enorme!
Scendiamo in piazza mentre giunge a conclusione il processo a Filippo Turetta, intanto una ragazza di 13 anni viene uccisa dal “fidanzatino” di 15 anni. Sappiamo bene che non sono le sentenze esemplari che cambieranno le cose. Guardiamo con sospetto ai riti collettivi che assolvono la società dalla responsabilità di queste morti.
Scendiamo in piazza il 23N non per ritualità ma perché è sempre più urgente in questo paese rifiutare l’oppressione, la vergogna, la guerra che ci viene imposta. Scendiamo in piazza per manifestare la nostra rivolta alla violenza patriarcale e alla deriva identitaria e autoritaria che la sostiene e giustifica.
E infatti, se la violenza è strutturale, la reazione del governo Meloni è chiara: la retorica della prima donna premier è facilmente contraddetta dagli atti.
L’attacco è ai percorsi di fuoriuscita dalla violenza e ai centri antiviolenza femministi, neutralizzati dal mercato dei bandi pubblici e trasformati in servizi socio-assistenziali che non puntano sull’autodeterminazione e sull’autonomia economica di chi si sottrae dal ricatto dell’abuso.
L’attacco subdolo all’aborto sancisce l’alleanza con le organizzazioni antiabortiste e passa per lo smantellamento dei consultori, dei reparti IVG e per il disinvestimento sulla RU486. La GPA come reato universale si rivela misura identitaria e transomofobica che nulla ha a che fare con il contrasto allo sfruttamento.
La “crociata antigender” – che altro non è che il tentativo maschilista e misogino di segregazione di genere – diventa politica istituzionale con l’attacco ai percorsi di affermazione di genere, in netta contraddizione con la necessità di prevenzione attraverso l’educazione sessuo-affettiva nelle scuole.
Le propagandate politiche a sostegno della famiglia e del lavoro femminile si rivelano per quello che sono: misure spicciole e frammentate che tagliano fuori famiglie non conformi, lavorator3 precari3 e disoccupat3 e che moltiplicano il lavoro povero e di cura, tuttora appannaggio delle donne e dell3 migranti con salari da fame.
Le persone disabili continuano ad essere invisibilizzate, infantilizzate e disumanizzate, gli aiuti previsti sono insufficienti e non considerano la diversità delle esigenze.
La violenza razzista di stato è perpetuata attraverso i CPR, il mancato soccorso all3 migrant3 che attraversano il Mediterraneo e la negazione della cittadinanza a chi nasce e cresce In Italia. Il progetto del centro in Albania non è altro che la prosecuzione di queste politiche, della violenza che noi ripudiamo e contro cui lottiamo.
In questo quadro Il D.D.L. Sicurezza è solo la punta dell’iceberg della deriva autoritaria e machista che attacca diritti e libertà, incrementa la circolazione delle armi, prevede il carcere anche per le donne in gravidanza o con figli piccoli. Moltiplica i provvedimenti disciplinari e attacca il diritto al dissenso, come è già stato anticipato dai blocchi ai caselli e alle stazioni ai fogli di via emessi in occasione della manifestazione per la Palestina del 5 ottobre. Accentra i poteri e militarizza i territori, lo spazio pubblico e personale: dall’autonomia differenziata che ha l’intento di definire e alimentare ulteriormente il divario già esistente tra Nord e Sud, all’inganno del progresso dietro le grandi opere (di guerra) come il Muos, la base di Coltano, la Tav e il Ponte sullo stretto.
Criminalizzare il dissenso, le condotte, i “margini” è violenza patriarcale.
La guerra, che viviamo in diretta, diventa paradigma delle relazioni sociali: normalizza la violenza, disumanizza i corpi, cancella i percorsi di liberazione in nome della logica del nemico che tutto schiaccia. Diventa economia di guerra, taglia i servizi fondamentali come la scuola e la sanità per finanziare il grande business del riarmo, cancella i diritti in nome della difesa della Nazione.
Ci ribelliamo alla guerra come espressione più brutale della violenza patriarcale. Non vogliamo più assistere alla catastrofe quotidiana del genocidio in Palestina e della Guerra che si estende a macchia d’olio.
Ci connettiamo con le donne e con le libere soggettività che resistono, pagandone doppiamente il prezzo, al massacro in Palestina perpetrato da Israele con la complicità dell’Occidente; con le giovani iraniane, come Ahou Daryaie, che lottano con incredibile coraggio per la libertà; con le combattenti che in Rojava, in Siria e Iraq costruiscono alternativa rivoluzionaria e femminista; con le sorelle che subiscono la guerra sui loro corpi in Ucraina, Libano, Yemen, Sudan…
Scendiamo in piazza al grido “Disarmiamo il patriarcato” perché abbiamo altre priorità che la logica geopolitica cancella: lottiamo contro la violenza e la cultura dello strupro che ci opprimono, contro i confini interni e esterni, contro la militarizzazione dei territori e la devastazione ambientale ormai dispiegate e presenti nel nostro quotidiano.
Disarmiamo il patriarcato, per fermare la guerra, nelle case, sui corpi, sui territori e sulle nostre vite.
Ci vogliamo viv3, liber3, arrabbiat3 perchè insieme siamo più forti.
Ci volete vittime, saremo marea!