Ieri le scuole di Firenze e Pisa in piazza per la Palestina
Sentiamo studenti di Firenze e Pisa sulle manifestazioni di ieri per la Palestina e le cariche della polizia
Sentiamo studenti di Firenze e Pisa sulle manifestazioni di ieri per la Palestina e le cariche della polizia
Dalla pagina di Quarticciolo ribelle:
“Forza a tutti coloro che lottano” è l’epiteto finale di uno dei libri di Mathieu Rigouste che facciamo nostro per affrontare un tema che riguarda la nostra quotidianità ed è il presupposto che ci serve per fuggire da una visione fatalista o
eroica nel confronto con le forze dell’ordine. Se si guarda, infatti, alla storia della polizia e all’organizzazione scientifica della sua azione si può comporre un’opera di disincanto di uno degli strumenti di dominio più
efficaci delle nostre società.
La logica della ferocia attraverso
la quale le forze dell’ordine si abbattono sui nostri territori va monitorata, documentata, esplorata perché la strage del carcere di Modena, i gravi abusi di Santa Maria Capua Vetere, le
violenze, gli omicidi di Aldrovandi, Cucchi, Russo, Dal Corso - solo per nominare i più recenti - non siano avvenute invano ma
uno dei terreni di ricomposizione possibile.
Come ci riporta Rigouste, quello che caratterizza le forze dell’ordine in Francia è una mentalità forgiata dall’esperienza coloniale alla base dello stato moderno e un terreno d’azione rappresentato dallo spazio urbano. Nel suo complesso l’obiettivo è il contenimento e il disciplinamento fino all’annientamento.
Il movimento Black lives Matter e le rivolte in Francia degli ultimi vent’anni ci parlano di una logica patriarcale, razzista, fascista e di classe che caratterizza il corpo militare tanto quello poliziesco. Ci parlano di rivendicazioni chiare: de-finanziare
il corpo di polizia e sottrargli il potere e la legittimità di uccidere.
Il bisogno di sicurezza è diventato
non solo un pretesto per rafforzare lo status quo - attorno al quale la destra di Lega e Fratelli d'Italia hanno costruito consenso - ma anche un business remunerativo fatto di armi, sistemi penitenziari privati e corpi speciali.
Sabato 13 gennaio insieme a Mathieue Rigouste e Afa Paris Banlieu parleremo di tutto questo alla luce delle rivolte partite da Nanterre la scorsa estate. Le periferie della Francia si sono infiammate dopo l'omicidio di un ragazzo di 17 anni. Nahel muore il 27 giugno 2023 ucciso durante un fermo di polizia: poteva essere un nostro amico, un nostro vicino di casa, un ragazzo che si allenava in palestra
o che frequentava la nostra scuola.
Abbiamo pensato questo incontro per approfondire il dibattito dopo mesi di mobilitazione del nostro territorio a
causa del peggioramento della vivibilità del quartiere e del moltiplicarsi della presenza della polizia e delle retate notturne e diurne con elicotteri, mezzi corazzati e cani al guinzaglio.
Abbiamo ragione di credere che la polizia e il carcere siano protagonisti nel nostro
quartiere, tanto quanto in tutte le periferie delle metropoli, nel mantenere un certo equilibrio che perpetua il dominio
sistemico. La loro presenza non diminuisce la criminalità ma la consolida, non c’è nessuna corrispondenza, infatti,
tra detenzione e operazioni di polizia e diminuzione della criminalità. La polizia si muove per ristabilire un equilibrio
che vede sostanzialmente la riproduzione perpetua di una città divisa in abitanti di serie A e abitanti di serie B.
Vi aspettiamo alle 18 alla @palestrapopolarequarticciolo via trani 1 Quarticciolo Roma
La repressione della Questura nei confronti dell’evento conclusivo del Catania Pride, a seguito della manifestazione tenutasi nel pomeriggio, presso una discoteca lungo la costa: poliziotti e guardia costiera a intimidire chi partecipa alla festa post pride.
Il giorno successivo una manifestazione di protesta (nella foto)
Ne parliamo Anna Chisari, attivista del Catania Pride
Lanciata con una conferenza stampa questa mattina a Verona la manifestazione:
BASTA ABUSI IN DIVISA
VERONA, SABATO 24 GIUGNO, ORE 14,
MANIFESTAZIONE.
Sono quasi 30 gli agenti della Questura di Verona indagati per i reati di tortura, maltrattamenti, lesioni e
omissione di atti di ufficio ai danni di persone quasi tutte migranti e senza dimora.
Da tempo, molte associazioni e organizzazioni veronesi denunciano e sono a conoscenza delle pratiche violente
e discriminatorie delle forze di polizia. Sono violenze che riguardano tutte e tutti, non solo le persone migranti.
A finire nei locali della Questura, sotto tortura, come sembra emergere da alcune testimonianze dei giorni
scorsi, è finito anche il figlio di un sottoufficiale della polizia. L’omertà ha vinto anche in quel caso. Ma come
spesso accade, sono le persone più indifese a subire le maggiori vessazioni. Lo dicemmo nel gennaio del 2022,
protestando contro alcune pratiche razziste, ma fummo denunciati per calunnia.
Oggi i fatti mostrano una realtà conosciuta da tempo. A fronte del numero di indagati è molto difficile pensare
che negli uffici di Lungadige Galtarossa qualche persona non sapesse cosa stesse avvenendo durante i fermi
delle volanti o per le strade della città.
La gravità di questi eventi ci spinge a pretendere un necessario e radicale ripensamento della funzione e delle
pratiche delle cosiddette “forze dell’ordine” e dei controlli a cui devono essere sottoposte per garantire il rispetto
dei diritti di tutte e tutti.
Siamo consapevoli di quanto queste pratiche violente siano quotidiane. La violenza delle forze dell’ordine,
infatti, non si manifesta soltanto negli atti brutali ed eclatanti denunciati in queste settimane. L’odissea di chi
richiede i documenti necessari per vivere e lavorare regolarmente nel bel Paese, le file interminabili e i tempi di
attesa per un appuntamento, i controlli a tappeto, e le foto segnalazioni indiscriminate, nei confronti di migliaia
di minorenni davanti alla Gran Guardia per opera della polizia locale, mettono in scena ogni giorno le criticità
di un mondo che non ha mele marce, ma un frutteto malato.
Una violenza strutturale che rimane sempre taciuta. Anche in questi giorni, sui media locali e per voce delle
istituzioni, assistiamo a una vittimizzazione vergognosa degli agenti. Arrivano gli psicologi per il personale della
Questura; vengono pubblicati i curriculum stellati di alcuni indagati; si punta il dito sui soggetti che avrebbero
subito torture indicandoli come “provocatori”. In questa narrazione passa in secondo piano la gravità di quanto
sta emergendo dalle indagini, e quanto molte realtà cittadine hanno già denunciato pubblicamente in passato.
Si vuole mostrare il volto pulito e democratico delle forze di polizia, che avrebbero svelato esse stesse il marcio
al loro interno. Ma com’è possibile accettare che le indagini siano guidate dallo stesso ente che è sotto inchiesta?
Numeri identificativi e bodycam sono quindi strumenti indispensabili per tutelare i diritti delle persone a
non subire vessazioni da parte delle forze dell’ordine. Ma non sono sufficienti a cambiare il quadro in cui si
inseriscono queste violenze. Abbiamo bisogno di una commissione esterna e indipendente per raccogliere le
denunce di chi vi incorre; abbiamo bisogno di figure di intermediazione all’interno dei processi di accoglienza
migranti; ma soprattutto va ripensato il ruolo delle forze dell’ordine nella gestione del territorio, dei suoi
margini e di chi li abita. Fin troppo spesso esse colmano la mancanza di politiche e interventi sociali. Si danno
risposte autoritarie a situazioni che meriterebbero attenzioni ben diverse, di inclusione, sostegno economico e
psicologico.
A partire da un articolo comparso sul Fatto Quotidiano dal titolo "Scuole in gita all'Areonautica: bimbi a bordo di aerei militari", analizziamo con Antonio Mazzeo, docente e peace researcher, la crescente presenza del mondo bellico all'interno della scuola.
PCTO in aziende belliche, visite a caserme e a mezzi militari, presenza delle forza dell'ordine nella scuola per affrontare tematiche come il bullismo e la violenza di genere, sono ormai all'ordine del giorno.
Non a caso il 9 Marzo si è tenuta la conferenza stampa che ha decretato la nascita dell'Osservatorio contro la militarizzazione della scuola.
Il week end passato si è tenuta a Roma l'ottava edizione della Canapa Mundi, fiera internazionale della canapa.
In questa edizione c'è stata una presenza quotidiana di forze dell'ordine, che in tutte le edizioni hanno eseguito controlli nella fiera, ma quest'anno hanno avuto una presenza pressante, multando diversi espositori, e portando diversi partecipanti alla fiera ad allontanarsi.
Da quando la legislazione sulla canapa in Italia è diventata più "permissiva", quindi con l'introduzione del commercio della cannabis light, e la diffusione dell'uso medico della cannabis, ci sono stati diversi tentativi di riportare le normative a vietarne l'utilizzo, come provò a fare Salvini nella sua esperienza di governo.
Tutto ciò nonostante in Italia le leggi che riguardano utilizzo, detenzione e autoproduzione di marijuana siano molto restrittive rispetto a buona parte dei paesi europei.
Ci facciamo raccontare cosa è successo alla Canapa Mundi, e ragioniamo più in generale delle leggi in vigore in Italia, e delle intenzioni del governo in carica con uno dei membri dell'associazione Canapa Caffè a San Lorenzo, e con uno degli organizzatori della fiera Canapa Mundi.
A partire dalle note vicendi dell'aggressione a Roma Termini, parliamo del riconoscimento facciale.
Facciamo anzitutto una breve cronistoria del riconoscimento facciale, distinguendolo dalla "mera" videosorveglianza.
Guardiamo poi la situazione legale in Italia e andiamo ad indagare le basi del riconoscimento facciale, gli effetti che produce nei luoghi in cui è già utilizzato, i motivi profondi per cui è discriminatorio.
Non solo il riconoscimento facciale non funziona bene come ci vogliono dire. Gli errori che questi sistemi producono sono in maniera schiacciante più pesanti per i gruppi marginalizzati (in particolare le donne nere). Questi errori hanno delle ripercussioni reali sulla vita di queste persone. La ragione profonda di questi errori non è il caso ma esattamente la loro condizione di marginalizzazione. Sono quindi sistemi che riproducono ed amplificano le oppressioni già esistenti.
Cerchiamo di tenere uno sguardo sull'automazione, dato che la creazione di un dibattito consapevole su questo tema non è più rimandabile.
Nella 12° puntata abbiamo parlato dei fatti di Genova del 20 Luglio 2001, di quelli del 17 Marzo 2001 a Napoli e di quelli della notte tra il 21 e il 22 Luglio 2001 nella scuola Diaz. Abbiamo tentato di raccontare la realtà di quei giorni concitati descrivendo la crudeltà e l'inumanità dei poliziotti, la repressione organizzata e crudele che si voleva ostentare con quelli atti di violenza su manifestanti indifesi, leggendo testimonianze e articoli di giornali inerenti ai fatti. Nel mezzo della puntata abbiamo anche avuto la possibilità e il piacere di parlare con un sindacalista dei S.I. Cobas che ci ha riferito la condizione dei lavoratori all'interno dell'azienda FedEx dove lavorano.
Dal 1982 in Francia il 21 giugno si svolge la festa della musica con rave party. Due anni fa una forte repressione poliziesca ha portato alla morte di un ragazzo Steve Maia Canico scomparso nella Loira. Anche quest'anno la polizia è intervenuta pesantemente ad un rave in ricordo di Steve in Bretagna a Redon. Ne parliamo con un compagno di https://nantes-revoltee.com/
Qui alcune immagini: https://www.youtube.com/watch?v=vw3Kn9VTL48
Dopo 10 mesi dalla morte di George Floyd, questa settimana e’ cominciato il processo a Derek Chauvin, uno dei quattro poliziotti coinvolti nell’omicidio del giovane afroamericano. Chauvin e’ stato accusato di omicidio di secondo e terzo grado e di omicidio colposo.
La stampa americana ha già definito questo processo il più importante processo contro un poliziotto dai tempi del pestaggio di Rodney King avvenuto esattamente 30 anni fa. Le similitudini, però, si fermano al semplice fatto che in entrambi i processi le telecamere sono state ammesse in aula. Il fatto e’ che la società americana e’ cambiata tanto da quel marzo del 1991. Per esempio, le proteste che seguirono il pestaggio di King si concentrarono soprattutto nei quartieri più neri di Los Angeles, mentre la scorsa estate praticamente tutte le maggiori città Americane sono state teatro di massicce proteste contro la brutalità poliziesca. Persino i bianchi americani, almeno quelli più liberali, hanno cominciato a guardare all’operato della polizia con occhi diversi.
Che i tempi siano cambiati lo si capisce anche dalla diversa composizione delle due giurie. Il processo contro i quattro poliziotti responsabili del pestaggio di Rodney King si celebrò non a Los Angeles, ma a Simi Valley con la scusa di voler offrire un ambiente più imparziale. La realta’ e’ che Simi Valley era una roccaforte bianca repubblicana in cui vivevano numerosi poliziotti. Non sorprende quindi che nessun afroamericano fu selezionato e che i quattro poliziotti furono assolti da una giuria composta da dieci persone bianche, un latino e un americano di origini filippine.
Nel caso del processo contro Derek Chauvin invece, il giudice si e’ rifiutato di spostarlo in un'altra citta’ e il poliziotto sarà giudicato da una giuria composta da 6 bianchi (due uomini e quattro donne), 4 afroamericani (tre uomini e una donna) e due donne che si definiscono mixed-race. Una composizione molto interessante se si considera che a Minneapolis gli afroamericani rappresentano il 20% della popolazione, mentre in questa giuria sono un terzo del totale.
I primi due giorni del processo hanno visto le deposizioni di alcuni dei passanti che si erano fermati per catturare con i loro cellulari il comportamento dei poliziotti durante l’arresto. Particolarmente toccante e’ state la testimonianza della diciottenne Darnella Frazier il cui video divento’ virale e scateno’ le proteste la scorsa estate. In lacrime la giovane afroamericana ha ammesso che la morte di Floyd l’ha profondamente traumatizzata perché quello che e’ successo a lui potrebbe succedere a suo padre, suo fratello e a qualsiasi altra persona a lei vicina, per il semplice fatto che sono nere. Subito dopo di lei, ha testimoniato sua cugina di appena 10 anni. Questo tipo di testimonianze dimostrano come purtroppo la violenza poliziesca entri a far parte delle vite degli afroamericani sin da piccoli. Esperienze che inevitabilmente lasciano profonde cicatrici emotive.
Un’altra importante testimonianza è stata quella di Donald Williams, un lottatore professionista che per questo motivo ha una profonda conoscenza dei rischi e pericoli delle tecniche usate dalla polizia per immobilizzare Floyd. Williams e’ la persona che ha cercato con più insistenza di convincere i poliziotti a lasciar andare Floyd. Si puo’ infatti udire la sua voce in tutti i video registrati quel giorno. La difesa ha cercato di provocare Williams per cercare di dimostrare che il giovane afroamericano può facilmente perdere le staffe e suggerire che quel giorno i poliziotti si sono sentiti minacciati e non hanno potuto monitorare con attenzione lo stato di salute di Floyd. Lo stereotipo dell’ angry black man viene spesso usato in queste circostanze per giustificare l’uso della forza da parte della polizia. Ricordiamo per esempio il caso della morte di Michael Brown, in quell’occasione l’agente Darren Wilson sostenne di aver ucciso il 18nne Michael Brown con sei colpi di pistola perché in quel momento si era sentito come un bambino di cinque anni cercare di bloccare Hulk Hogan. E’ importante sottolineare che Wilson e’ alto un metro e 93 e pesa 95 kg. Williams pero’ non e’ caduto nella trappola sostenendo che quel giorno non era arrabbiato, ma piuttosto disperato nel vedere un uomo morire davanti ai suoi occhi senza poterlo aiutare.
Il tentativo della difesa di presentare le persone presenti all’arresto come una minaccia e’ molto interessante perché conferma come la polizia abbia una visione molto militarizzata delle comunità in cui opera. Come se fossero forze d’occupazione, la polizia percepisce qualsiasi passante come una possibile minaccia, forze nemiche neanche fossero in Iraq o Afganistan.
Certo sarà difficile per la difesa riuscire a dimostrare l’innocenza di Chauvin. Secondo le dichiarazioni rilasciate nel primo giorno del processo, gli avvocati si concentreranno su due elementi in particolare. Primo, cercheranno di dimostrare che George Floyd e’ morto non a causa del ginocchio che Chauvin ha premuto sul collo dell’uomo per più di nove minuti, bensì a causa delle droghe che l’uomo aveva assunto in precedenza e che, sempre secondo la difesa, causarono un arresto cardiaco. Secondo, Chauvin era così preoccupato di tenere sotto controllo le persone accorse sulla scena dell’arresto che non ha potuto prestare attenzione alle condizioni fisiche di Floyd.
Entrambi gli argomenti sembrano molto difficili da sostenere in aula. Prima di tutto perche’ l’autopsia ufficiale ha gia’ definito la morte di Floyd come un omicidio dovuto al comportamento dei poliziotti. Secondo perché i numerosi video catturati dai cellulari delle persone accorse sulla scena mostrano sì delle persone arrabbiate ma mai così aggressive da mettere a repentaglio l'incolumità dei poliziotti.
A questo si deve aggiungere che tutte le testimonianze finora raccolte hanno sottolineato l’assoluto disprezzo che i poliziotti, e in particolare Chauvin, hanno mostrato per la vita di Floyd. Uno dopo l’altro, tutti i testimoni hanno descritto, spesso tra le lacrime, il senso di impotenza e disperazione che hanno provato di fronte alla morte di Floyd. L’accusa ha mostrato ripetutamente i video in cui si possono ascoltare le voci dei presenti implorare Chauvin di togliere il ginocchio dal collo di Floyd. Voci, lacrime e testimonianze che hanno sicuramente lasciato un segno nella memoria dei giurati.