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femminismo

Trasmissione del 17/2/2016 "Fimmene Fimmene""

Data di trasmissione
Durata 56m 37s
“ Fimmene Fimmene hanno suonato per noi e per voi dal vivo ai microfoni di ROR!

“FIMMENE FIMMENE/alessandra di magno, irene guarrera, silvia pierattini, nicoletta salvi, alessia sibilla  si raccontano e ci raccontano”

 

La Coordinamenta verso l’8 marzoImmagine rimossa. Siamo tutte prigioniere politiche!

 “Il femminismo non può abbandonare mai la lotta di liberazione che è possibilità di comunicare, di dare voce a tutte le lotte del presente come del passato e alle loro ragioni. E’ portare fuori ogni lotta dall’ambito riduttivamente femminile, è vanificare così tutti i tentativi di ghettizzazione. E’ smascheramento dei codici linguistici del potere che costituiscono la rete essenziale del controllo sociale. E’ la capacità di investire tutti gli aspetti della vita: dal lavoro all’eros, dai sogni ai linguaggi quotidiani, dalla politica all’arte…. E’ rivoluzione totale.”

ATTI/Memoria collettiva Memoria femminista-2012

Immagine rimossa.

La Parentesi del 17/02/2016"Mistificazioni neoliberiste"

Data di trasmissione
Durata 5m 50s
“Mistificazioni neoliberiste”

 

Immagine rimossa. Il 15 gennaio scorso è stato varato dal Consiglio dei Ministri il decreto legislativo sulle depenalizzazioni che prevede che una serie di reati non rientrino più nella casistica penale, ma vengano sanzionati amministrativamente. Nei vari commi di legge per i comportamenti in questione viene sostituito al termine “è punito” il termine “è soggetto alla sanzione amministrativa pecuniaria”. Si tratta di illeciti svariati che vanno da reati cosi detti “Contro la fede pubblica” e cioè, per esempio, uso di atto privato falso, falsità in scrittura privata a quelli “Contro la moralità e il buon costume”, da quelli in “Materia di Previdenza” come omesso versamento delle ritenute previdenziali e assistenziali a quelli in “Materia di circolazione stradale” come la guida senza patente, solo per citarne alcuni e varrebbe la pena che ognuno/a se li andasse a leggere tutti.
In questa casistica estremamente varia è contemplato anche il reato d’aborto, cioè l’aborto fuori dalle regole imposte dalla Legge 194/78. La Legge 194/78 prevede la possibilità di aborto solo se viene seguito un percorso obbligatorio amministrativo e medico e solo nelle strutture pubbliche. Se la donna che vuole abortire non segue questo percorso e se non lo fa nelle strutture pubbliche, fino all’altro giorno, la trasgressione era penale. A seconda della gravità della trasgressione era prevista la multa fino a centomila lire, vale a dire 51 euro, o la reclusione fino a sei mesi. Ora le regole e il percorso sono rimaste le stesse, ma la trasgressione è stata depenalizzata e soggetta a multa da 5 mila a 10 mila euro.
Detta così sembrerebbe una buona cosa. Invece no, perché non intacca assolutamente lo spirito della legge. L’aborto, che dovrebbe essere libero, continua ad essere permesso solo secondo il percorso e i dettami della norma che, per inciso, non funziona affatto perché abortire nelle strutture pubbliche è un terno al lotto visto l’altissimo numero di obiettori di coscienza, nel Lazio l’80%, ma con l’ introduzione di una multa così alta si attua un ulteriore filtro fortemente classista. Tutto quello che passa attraverso il denaro è una discriminante di classe e, quindi, dato che la possibilità di abortire delle donne delle classi subalterne in strutture pubbliche è estremamente limitata, queste non potranno più abortire con il fai da te o, meglio, dato che necessariamente continueranno a farlo ,non andranno neppure in ospedale in caso di complicazioni per non prendersi anche la salatissima multa.
Quindi è evidente la mistificazione portata avanti da questa cosi detta depenalizzazione che si configura in maniera evidente come una forma di controllo poliziesco e di classe estremamente forte.
Ma non è un decreto infelice o mal riuscito, fa parte di una modalità specificatamente neoliberista di affrontare il sociale.
Fa parte di questa tendenza anche la spinta ad una riforma carceraria sempre più tesa a sostituire per molti reati la detenzione in carcere con misure alternative.
I richiami della Corte europea dei diritti dell’uomo all’Italia che focalizzavano l’attenzione sul sovraffollamento, sulle condizioni igieniche precarie, sulla mancanza di aree di socialità o cortili per l’aria, hanno costituito la chiave per un cambio di indirizzo politico che dovrebbe prevedere un maggiore ricorso alle pene alternative e sostitutive della carcerazione che non è solo italiano, è un indirizzo di tendenza nei paesi occidentali.
Anche qui, detta così, sembrerebbe una buona cosa. Invece no. Certo, stare fuori è meglio che stare in carcere, ma questa disponibilità del sistema neoliberista nasconde una strategia di controllo sociale devastante.
Se a un detenuto/a viene concesso di “espiare” la pena a casa, al lavoro, nei servizi sociali o in una qualunque configurazione esterna, la sua vita sarà per legge soggetta a controllo e anche quella dei familiari, dei datori di lavoro, dei colleghi, di tutte e tutti quelli che sono con lui/lei in relazione . In questo modo è possibile mettere in atto un controllo sociale serrato sul territorio e addirittura costringere il territorio ad autoregolarsi. Ognuno/a diventerà controllore di se stesso e degli altri.
Così il cerchio è chiuso, la vita è diventata un carcere e chi si vuole sottrarre è molto più individuabile, circoscrivibile e neutralizzabile.
La partecipazione alle manifestazioni, l’impegno politico, i tentativi di organizzarsi in lotte sociali contro la mancanza di alloggi, il caro scuola, la disoccupazione.. sono sanzionate amministrativamente con multe salate con il chiaro intento di dissuadere da subito chi può avere intenzione di portare avanti una qualsivoglia lotta.
Le persone non solo sono sottoposte ad un forte controllo poliziesco ma dovrebbero imparare ad autocontrollarsi, controllare gli altri/e e piegarsi ad un asservimento volontario.
Possiamo solo autorganizzarci e tagliare i ponti con questa impostazione sociale, rifiutare il coinvolgimento, rifiutare ogni collaborazione, smascherare i veri obiettivi che sono sempre ammantati da nobili motivazioni.
Siamo tutte e tutti detenuti politici.

Trasmissione del 10/2/2016 "Il patriarcato è un modello economico "

Data di trasmissione
Durata 58m 43s
"Nomi delle Cose” /Puntata del 10/2/2016 “ Il patriarcato è un modello economico

La coordinamenta verso l’8 marzo

 

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 Lottare solo contro l’ideologia, la mentalità, la cultura patriarcale senza mettere in discussione i meccanismi che la perpetuano, è insufficiente se non fuorviante. Non trasformando i rapporti di produzione capitalistici iscritti nei processi di lavoro, questi riproducono continuamente tutti i ruoli della divisione sociale capitalistica, tutti i ruoli degli apparati politici e ideologici patriarcali” ATTI/ Il personale è politico-Il sociale è il privato- 2012/ Attualità femminista/Falsa immagine/Ricominciare da tre –Il Patriarcato è un modello economico"

La Parentesi del 10/2/2016 "Falsa immagine"

Data di trasmissione
Durata 6m 52s

https://coordinamenta.noblogs.org/post/2016/02/11/la-parentesi-di-elisa…

 

“Falsa immagine”

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Il patriarcato è un processo di sovranità, non c’è peggiore mistificazione che considerare il patriarcato capace di autoregolazione. E’ sempre un rapporto tra chi comanda e chi obbedisce.

Che cosa è il femminismo? assumere il rapporto patriarcale non come concluso e definito, ma come rapporto di forza che di volta in volta si modifica sulla base della lotta, dei modi della lotta e pertanto delle figure della progettualità.

Più precisamente l’analisi femminista oggi si scontra con il ruolo delle patriarche. Queste nella nostra stagione quando la vita intera è sussunta nel capitale e la valorizzazione dello stesso è prodotta da una società messa al lavoro con una femminilizzazione che caratterizza tutto il rapporto produttivo e lo sfruttamento tipico della società patriarcale, si diffondono sull’intero tessuto sociale. E’ a partire da questo momento che la condizione femminile si trasforma perché non riguarda più solamente la condizione materiale femminile ma anche le dimensioni dei soggetti produttivi socialmente.

Patriarcato e patriarche vivono in simbiosi. I disastri di questo connubio, di questa costituzione materiale, sono sotto gli occhi di tutte. Guerra di poche elette contro la stragrande maggioranza delle donne e degli oppressi tutti.

E questo passare, armi e bagagli, dalla parte del patriarcato corrisponde all’esigenza che lo stesso ha di spezzare le lotte della “classe donne” strumentalizzando la parola femminista. Si è data la stura ad una strana situazione, ambigua, perversa, ma prepotente e violenta che consiste da parte del patriarcato nello spostare i limiti, le forme e gli spazi del suo essere e del suo comando.

Da qui la necessità, il desiderio di ogni donna sfruttata, derisa, umiliata nella stagione neoliberista. I processi di disciplinamento delle donne con i metodi tradizionali lasciano ora spazi a nuove, diffuse e ramificate strutture di controllo. A questo punto diviene fondamentale il problema di come resistere, ribattere e riprendere l’iniziativa contro il nuovo assetto patriarcale nella stagione che questo ha cooptato chi per tornaconto personale o di ceto si è venduta. Il femminismo non è stato sconfitto, né riassorbito nelle dinamiche neoliberiste, è un insieme di singolarità che lottano contro il potere neoliberista e patriarcale che cerca di trovare nuove mitologie di coesione e di identificazione.

Il femminismo, come negli anni ’70, è un’affermazione di singolarità che si riconoscono in una lotta collettiva, è una forza di metamorfosi sociale e antropologica, è una concezione militante e creativa, non è solo un nuovo modo di vivere, anche se lo è, ma è soprattutto produzione di soggettività politica che si può realizzare solo producendo libertà.

Dentro il processo neoliberista che ha prodotto l’alleanza tra patriarcato e patriarche siamo tutte povere, vale a dire siamo tutte nelle mani di un potere che ci fa regredire e ci rende completamente asservite ad uno sfruttamento totale e a tutto campo.

Le patriarche mettono in atto un meccanismo per cui presentano l’emancipazione come il femminismo realizzato e concretizzato proprio nella loro posizione di privilegio al servizio del potere, e, allo stesso tempo, dietro questo specchio che riflette una falsa immagine lavorano per il neoliberismo. Approvano e sponsorizzano leggi che mettono sul lastrico tutte le altre donne togliendo loro indipendenza economica e possibilità di scelte autonome, attivano e sollecitano una legislazione securitaria e di controllo che rende la vita militarizzata, contrabbandando per sicurezza quella che invece è cultura dello stupro, promuovono la denuncia d’ufficio, togliendo quella che è la base di ogni scelta di autonomia non solo nostra ma di ogni soggettività, predicano l’antirazzismo e promuovono invece politiche di discriminazione avallando tutto le scelte che riguardano le politiche neocoloniali e di aggressione ai paesi del terzo mondo e la colonizzazione di interi territori interni, impostando così gerarchie di razza e di classe che rafforzano le gerarchie di genere in tutta la società, vanno a braccetto con chi sul fronte interno ed esterno pratica l’aggressione militare ed armata togliendo la discriminante antifascista, sponsorizzando gli USA, cavalcando gli opposti estremismi, dichiarandosi pacifiste e democratiche e arrogandosi così il diritto di essere loro ad esercitare violenza.

Coltivano i servizi sociali e l’associazionismo connotandolo con caratteri polizieschi e dietro l’ipocrisia della tutela ai minori puniscono le donne refrattarie a questo ordine sociale. Propagandano come positivi i ruoli delle donne nelle istituzioni repressive e di controllo cercando di farci dimenticare che le “tendine rosa” coprono un doppio tradimento, sempre quello di genere e quasi sempre quello di classe.

E il loro essere donne ed essere parte integrante della socialdemocrazia riformista mette in difficoltà e ricatta chi vuole contestare loro tutto questo.

Ma l’essenza, lo spirito e l’esperienza delle nostre lotte ci permette di diventare adulte sperimentando l’esercizio della verità. Il nostro essere femministe si realizza attorno alla possibilità di imporre una misura, un argine, una figura alternative alla miseria e alla tristezza di questo mondo.

La costruzione del femminismo dà voce a tutte le espressioni dell’esistente e riesce a rivelarle. Per questo smascheriamo il modello neoliberista di democrazia, di liberazione che si presenta e si definisce come corruzione delle singolarità. Battersi per la libertà è l’orizzonte verso il quale il femminismo si indirizza.

Si tratta di praticare un’interazione continua di singolarità, di antagonismo e di progetto costituente.

Il patriarcato impone la guerra alle donne come fondamento di ogni ordine politico utilizzando le patriarche come ascari. Da qui la necessità della guerra alla guerra.

Le patriarche non sono nostre sorelle, stanno dall’altra parte della barricata.

Il patriarcato ci fa la guerra, non dobbiamo credere alle sirene che ci raccontano di una pace illusoria. Il femminismo è trasmutazione vitale della condizione di morte delle donne che ci è comunemente imposta, è creatività di affetti, di relazioni, di militanza le cui intensità sono irriducibilmente singolari e plurali.

 

Desmonautica del 27/1/2016 "Note di politica trans"

Data di trasmissione
 
Da “I Nomi delle Cose” del 27/1/2016 “Desmonautica“ la rubrica di Denys ogni ultimo mercoledì del mese.

Ci scusiamo per il ritardo nella pubblicazione del contributo dovuto a disguidi tecnici

“Note di politica trans, ovvero l’importanza di avere delle priorità”

(…)Un famoso barbuto tedesco che non ha bisogno di essere citato disse che la storia è la storia delle lotte fra classi, e io sono abbastanza ideologicamente fuorimoda da essere d’accordo. Ma aggiungo che la storia è una conversazione dove ti interrompono spesso. I discorsi di chi pretende libertà sono quelli che appena cominciano si toglie l’audio. È quel genere di situazione dove bisogna imparare ad alzare la voce; io sono qua perché sento intimamente la responsabilità di rimanere abbastanza tignoso da continuare a tenere il volume alto. Sono piuttosto fiducioso di riuscirci, perché sono virtualmente incapace di modulare la mia voce in tonalità non moleste.

Immagine rimossa.

Ora, molti interventi come questo cominciano con lunghi antefatti sul proprio percorso. Ma siccome io ritengo d’essere un uomo relativamente banale, e non è che la cittadinanza di maschio d’adozione cambi granché le cose, vi evito questa noia. Sì, ok, sono nato femmina, la cosa mi deprimeva a morte, blablabla, testosterone, blablabla, e ora ho l’acne, i peli e la gioia di vivere. Ordinaria amministrazione, gente! Una cosa ve la dico, però: sono bisessuale. A essere pedanti, anche questa è una descrizione sommaria, ma amo semplificare il semplificabile. Forse ritenete superfluo parlarne, ma per me è politicamente importante ribadirlo: non sono un attivista trans. Sono un attivista trans e bisessuale. C’è tutta la differenza del mondo in questa sottigliezza. Poi sono anche molte altre cose, ma questa è un’altra storia che intendo raccontare altrove.

Veniamo a noi. Se ho dato un preciso titolo a questo intervento è perché penso all’importanza, per un movimento, di definire strategicamente le sue priorità. Spesso pensiamo male, malissimo del concetto di priorità, perché una coltre di gente a dir poco discutibile ne distorce il senso. L’accezione che conferisco a questo termine non è quella che loro utilizzano. Non solo credo che le priorità di un privilegiato siano differenti da quelle di chi privilegiato non è, ma credo anche che la posizione di privilegio strutturale (sociale ed economico) e sovrastrutturale (cioè culturale) plasmi il concetto stesso di priorità. Quando questi soggetti parlano di priorità, non parlano di definire le priorità atte a mandare avanti, in senso positivo, un progresso politico. Nei loro discorsi la priorità è un artifizio che usano per nascondere il fatto che per loro, priorizzare, non è organizzare coscientemente le istanze al fine di portarle avanti con dei risultati, i migliori possibili; è posizionarne alcune sopra le altre in un’ottica escludente e distruttiva, anti-propositiva, e infine del tutto reazionaria.

Voglio essere chiaro: ogni parola che dico non intende in nessun modo sminuire chi dirige i suoi sforzi in altri luoghi, ma mi pare il caso di fare presente dove invierei maggiori attenzioni. Qui ritornerei all’affermazione per cui il personale è politico. Questa frase porta con sé almeno tre livelli di significato diversi. Il primo è teso ad evidenziare quanto alcuni aspetti delle nostre vite, apparentemente innati e naturali, siano in realtà socioculturalmente determinati. Il secondo è quello che ci rende nota la parzialità del nostro percorso esistenziale individuale, che in realtà è ingranaggio di un meccanismo collettivo, condiviso e complessivo. Il terzo, forse meno autoevidente degli altri, è questo:

parlare di personale che diviene politico mette in luce anche la materialità del quotidiano. Personale infatti non è solo una forma mentis e una direzione presa, ma anche un bisogno che abbiamo mentre lo proviamo. Questo è esattamente il punto: la nostra priorità credo risieda proprio qui, nel perseguire il soddisfacimento dei nostri bisogni materiali condivisi qui ed ora, senza più aspettare. Spesso come attivista trans mi capita di sentire lamentarsi altri attivisti ed attiviste del fatto di non essere presi in considerazione dal resto della comunità. Per quale motivo credete che questo accada? Esiste una cosa che si chiama piramide dei bisogni, in fondo ci sono basilari necessità di sopravvivenza. Soddisfatte quelle, si sale di un gradino e si può pensare al livello di astrazione del piano di sopra. Sapete cosa? La maggior parte della comunità trans non riesce a soddisfare il gradino base. Perciò se vogliamo costruire un movimento abbandoniamo l’illusione che la maggior parte delle persone possa volersi occupare di qualcosa di diverso da quello: la maggior parte delle persone non sono così masochiste da volersi occupare di dibattiti che le riguardano in modalità esclusivamente tangenziali. Abbandoniamo anche la pretesa di definirci e rimanere controcultura. Farlo significa voler rimanere nell’angolino a vantarsi di essere anticonformisti a vita, è ribellismo adolescenziale fuori tempo massimo. Noi dobbiamo diventare cultura, e basta. Non esiste un cambiamento che non passi attraversi questo. Siamo egemonici, per la miseria! Perciò, con buona pace di discorsi culturali sull’immagine della transessualità che può fornire l’attrice tal dei tali, o un altro soggetto tal dei tali, discorsi disgustosamente intrisi di politiche della rispettabilità, parliamo d’altro.

Parliamo di studenti trans. Si parla spesso in modo fumoso di diritto all’istruzione, ma qui ci riferiamo a qualcosa di molto concreto. Il nostro diritto all’istruzione è leso dalla nostra posizione economica svantaggiata, dalla pressione sociale, dalla paura della violenza, dal bullismo e dalla mancanza di una normativa che renda possibile attraversare il mondo scolastico con un nome che differisca da quello anagrafico a prescindere dalla modifica o meno dei documenti. Questo talvolta accade, e io mi ritengo fortunato nel poter dire che la mia scuola me lo sta permettendo, ma accade a totale discrezione dell’atteggiamento bendisposto di chi si ha di fronte. Vi pare che si possa contare sulla buona volontà delle istituzioni di assecondare la libertà di genere, in un paese dove è ancora scandalo la pillola del giorno dopo?

Parliamo di adolescenti trans. Faccio ancora parte di una generazione dove la maggior parte delle persone hanno scoperto di sé stesse generalmente dopo i diciotto anni, o in prossimità di quelli. Fra noi non si è posta certo la questione. Con l’avvento di una maggiore informazione esistono però ragazze e ragazzi che hanno modo di scoprire la propria verità molto prima, anche a quindici, quattordici, tredici anni e intendono giustamente transizionare presto. Invece di moralistiche, paternalistiche congetture circa l’eventualità che sia troppo presto perché loro conoscano sé stessi e possano dunque decidere per sé, preoccupiamoci di fornire loro strumenti d’analisi per loro stessi, per il mondo, e ciò che serve a soddisfare le loro necessità. Possiamo evitargli un trauma. Facciamolo. (Faccio notare come nessuno dubiti del grado di autoconsapevolezza dell’eterosessualità e del cisgenderismo degli adolescenti eterosessuali e cisgender).

Parliamo di persone detenute trans. Le galere, italiane e non, sono posti terrificanti dove in barba a ogni genere di mistificazione democratica non si fa nulla di umano o educativo: si tortura, e spesso, si uccide. Aggiungete a questo orribile retroscena le vessazioni che provengono dal violare le convenzioni in un luogo dove non ci si può proteggere. Vi pare che si possa aprire bocca con le manette ai polsi e la mano sul collo?

Parliamo di lavoratrici e dei lavoratori trans, che si vivono a metà o non si vivono affatto per non perdere l’unica fonte di reddito che hanno nel contesto più generale di un’incertezza economica sconcertante, o lo fanno ma sotto mobbing. Mi preoccupo in modo particolare delle lavoratrici del sesso, capro espiatorio di una comunità che ambisce a una normalità che non potrà mai ottenere, e la colpa è soltanto del nostro attivismo normale, accettabile, presentabile, carino, infiocchettato… e paralizzato, perché non ci porta da nessuna parte. Ci si fa un mazzo tanto ad appiattirsi su criteri di normalità, ma i criteri li fanno sempre gli altri, e ce ne terranno sempre fuori, quindi siamo fregati. E i disoccupati? E le disoccupate? Qualcuno ha idea di cosa significhi la compromissione non solo della capacità di mantenersi vivi, ma di mantenersi vivi e felici nel percorso che porta una persona alla realizzazione della persona che essa è?

Parliamo delle persone trans nel loro accesso alla sanità. Nel contesto più generale di una sanità sempre più depauperata di risorse, e le cui prestazioni sono di fatto negate a una serie di soggettività che qualcuno chiamerebbe di marginalità sociale, le persone trans ricevono un danno doppio. Non so se sapete che per esempio, a Roma, è ora praticamente impossibile trovare una struttura del tutto pubblica dove effettuare, in particolar modo, la fase psicologica del percorso di transizione, considerata, ve lo ricordo – a fronte dell’attuale stato dell’arte clinico e burocratico – obbligatoria. La struttura che in teoria sarebbe di riferimento è in sostanza privata, e richiede un gran spesa. Domanda retorica: una persona trans ha questi soldi? Un problema della sanità è quindi ovviamente quello che riguarda l’accesso a prestazioni mediche e psicologiche specificatamente legate al percorso di transizione. Queste non sono affatto garantite, e questo è un problema grosso, grossissimo, per non dire fondamentale. Il problema, peraltro, non è solo quello, in quanto come persone trans, in modo più indiretto, non ci viene garantito neanche l’accesso alla sanità generale. Infatti anche un qualsiasi altro problema di salute diventa per una persona trans un problema di sanità trans, per il truismo lapalissiano che quando si è malati non si smette di essere transessuali. Il personale sanitario tutto è quasi interamente privo di ogni cognizione su cosa sia la transessualità e su come rispettare le persone trans, in particolar modo quelle nella fase delicata e imbarazzante che genera la difformità tra presenza fisica e documenti non aggiornati. (Mi riaggancio un istante al discorso di prima: questo vale per ogni istituzione pubblica che si interfacci con le persone trans, quindi per esempio anche insegnanti, educatori). Inoltre, mi domando quanto le scienze mediche si siano attualmente poste la necessità di pensare una medicina trans, incentrata sulle specifiche esigenze e particolarità di un corpo transessuale. Vorrei fare un breve inciso anche sulla malasanità, ma non ho gli strumenti e le conoscenze necessarie, perciò a questo riguardo vi invito soltanto ad approfondire se non l’avete già fatto le brutte vicende che hanno coinvolto Elena Sofia Trimarchi. Queste che vi ho elencato finora sono solo alcuni esempi di questioni che io, personalmente, mi pongo.

Però capiamoci. La lotta degli studenti trans dev’essere la lotta degli studenti tutti. La lotta per la sanità trans non può esimersi dall’essere parte di una lotta per i diritti dei pazienti in generale. La lotta delle e dei detenuti trans dev’essere parte di un discorso d’insieme sulla realtà delle carceri. Nessuna, nessuna delle nostre lotte si può permettere più di esistere se non così. Non è un suggerimento, è una scelta che dobbiamo fare: solidarizzare o soccombere. E quando parliamo di solidarietà, parliamo di una solidarietà pratica, viva, forte, relazionale: altrimenti non parliamo di solidarietà, parliamo del fantasma delle pubbliche relazioni, un inutile golem da comunicato. Come individui, carissimi miei, carissime mie, non contiamo niente. Perciò facciamo reti, rizomi, prolungamenti, tutto quello che ci pare, ma connettiamoci. Una lotta senza ponti muore settoriale. Questo è, per me, il significato politico più bello e prezioso dell’intersezionalità: non la necessità di fare tuttologia militante ogni volta che si parla di un singolo argomento per sentire l’ebbrezza del politicamente corretto, ma le opportunità sostanziali che essa offre nel creare legami.

Ho parlato per me e per nessun altro, le mie vogliono essere più indicazioni provenienti dalla mia visione del mondo, che non un flusso di logorrea didascalica e onnicomprensiva. Mi auguro di aver ricoperto una qualche utilità e vi ringrazio ancora. Vi lascio un’ultima cosa, una domanda. Oggi discutiamo, domani pure, dopodomani cosa volete fare? Questo è tutto. Ho finito.

 

Trasmissione del 3/2/2016 "L'uso della memoria"

Data di trasmissione
Durata 57m 38s
“L'uso della memoria”

"Dal giorno della memoria ai Cie, dall’antifascismo alle desaparecide./Stato sociale/Incontro con Silvia Nati e Roberta Fornier: Argentina. 1976-1983. 30.000 desaparecidos. La Storia vera di una di loro. Identità imposta, identità personale, identità acquisita. Identità di un popolo."

 

 

 

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Desaparecidos: scomparsi.
Durante gli anni ’70 in Argentina, una delle dittature più violente del “secolo breve” decide di cancellare in maniera sistematica e perversa un’intera generazione.
30.000 desaparecidos. Tra di loro anche 500 neonati. La maggior parte nati nei centri clandestini di detenzione, ultimo tetto delle loro madri, e dati in adozione a famiglie di militari cancellandone completamente l’identità, le tracce dei loro legami precedenti. Questo perché non si corresse il rischio che diventassero come coloro che li avevano generati: persone libere, pronte a creare una società libera.
Ad oggi sono appena 119, 119 su 500, i bambini ritrovati grazie all’ostinato e infaticabile lavoro delle Abuelas de Plaza de Mayo. Sono uomini e donne che hanno vissuto vite diverse da quelle a cui erano destinate.
Questo spettacolo racconta la Storia vera di una di loro.
Un giorno, un giorno qualsiasi, le rivelano che non è la persona che ha sempre pensato di essere. Scopre, da adulta, che i suoi genitori non sono quelli che ha sempre chiamato “papà e mamma”, che il suo sangue ha il colore della rivolta e della desapareción, che nulla di ciò che sa di se stessa corrisponde alla verità….nemmeno il suo anno di nascita.
Cosa può fare un essere umano che si specchia senza più sapere chi è? Come accettare una nuova identità, un nuovo nome?
Un doloroso percorso di consapevolezza dove lo scontro, il dubbio, l’impotenza e la ribellione si accavallano. Ricomporre se stessi, essere come un puzzle cui mancano sempre delle tessere. Ricostruirsi nonostante i pezzi mancanti….
Identità imposta, identità personale, identità acquisita. Identità di un popolo.

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La Parentesi del 3/2/2016 "Stato sociale"

Data di trasmissione
Durata 5m 5s
“Stato sociale”

 

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Lo stato sociale si è presentato, a partire dagli anni ’30 e, poi, soprattutto dalla seconda metà del XX secolo, come tentativo da parte del capitale di contenere la lotta di classe e magari di regolamentarla dentro le sue esigenze di sviluppo  cioè della valorizzazione capitalistica della forza lavoro. Le politiche dello stato sociale hanno rappresentato la risposta alla paura determinata dalla rottura dell’ordine capitalistico provocata dalla rivoluzione d’ottobre. L’affermazione, l’espansione dello stato sociale è stata, da subito e da sempre, condizionata dallo spessore e dalla qualità della lotta di classe dell’offensiva operaia durante i vari cicli che hanno percorso il XX secolo.

Ha contato anche la necessità da parte del capitale di creare una recettività all’altissima offerta di prodotti industriali, ma lo stato sociale ha rappresentato soprattutto il tentativo di devitalizzare le ondate di lotta della classe operaia.

La formula capitalista della stagione d’oro dello stato sociale, cioè dopo la fine della seconda guerra mondiale, è la dimostrazione dello spessore a cui erano arrivate le lotte operaie. In quella stagione il capitale ha stretto alleanze con i sindacati e con la socialdemocrazia al fine di legittimare “democraticamente” il proprio potere coniugando questa legittimazione con gli interessi volti a sollecitare una domanda interna per garantire i processi di valorizzazione del plusvalore.

Questa impostazione, continuamente investita da successive ondate di lotte operaie, è stata interrotta, in maniera drastica e per scelta di parte, dal grande capitale a guida statunitense quando ha optato per il neoliberismo. E’ stato un passaggio nodale. La rottura, la scelta neoliberista ha comportato una trasformazione dei soggetti in campo. Il neoliberismo mette tutta la società al lavoro e mette tutto il mondo sociale sotto il proprio comando.

Questa risposta del capitale di superare l’azione di classe smantellando lo stato sociale è quindi una scelta ed è avvenuta attraverso una serie di processi di privatizzazione, presentati come necessari e utili per la collettività e avallati come tali da sindacati e socialdemocrazia. Tutto ciò all’interno dei paesi dell’area capitalistica accompagnato da una spinta e da una accelerazione dei processi di globalizzazione economica che trovavano campo libero in seguito al crollo dell’Unione Sovietica che, a torto o a ragione, veniva identificata con il comunismo.

Margaret Thatcher e Ronald Reagan hanno aperto la breccia nello stato sociale, ma chi si è prestato ad ucciderlo è stato Tony Blair e i suoi epigoni socialdemocratici.

Se consideriamo lo stato sociale per quello che è sempre stato, cioè non come concezione statale, ma come prodotto delle lotte operaie, cioè manifestazione tangibile della lotta di classe, allora comprendiamo che la battaglia per lo stato sociale è ancora viva perché è la manifestazione della capacità del movimento di classe di incidere su tutti i nodi del processo sociale.

Ma questo non può essere attuato cercando mediazione e contrattazione, che sono state chiuse in maniera unilaterale e a tutto campo, dal capitale, bensì soltanto recuperando l’offensiva di classe degli strati sociali attaccati dal neoliberismo, platea sociale che proprio il neoliberismo ha reso più vasta e variegata. Solo così sarà possibile, a ricaduta, riottenere quello che è stato tolto e rispondere alle nuove esigenze dettate dalla sensibilità della nostra stagione. La centralità è la lotta politica ed è inutile inseguire i discorsi fuorvianti e parziali sulla crisi o sulla sostenibilità. Lo stato sociale è il sottoprodotto di una lotta politica che ha mire ideali molto più alte e che si pone il problema dell’uscita dalla società del capitale.  Una nuova stagione di lotte non deve lasciare al capitale né alla sua manifestazione organizzata, lo Stato, né ai suoi surrogati, il comando e il monopolio di gestire quello che è nostro.

Gli aspetti dello sfruttamento sono molteplici, pertanto, molte modalità possono e devono prodursi per costruire un nuovo programma politico incentrato su desideri e spinte rivoluzionarie perché solo così nel presente, a ricaduta, lo stato sociale verrà proposto dalla controparte come possibile mediazione.

Lo stato sociale non ha soltanto rappresentato un’esperienza storica, ma è stato anche un’esigenza, un’aspettativa che, per molti versi, si è realizzata.

Bisogna ricostruire le modalità, le occasioni, la scansione per cui si è affermato, tenendo conto dei nuovi soggetti che sono presenti oggi nella stagione neoliberista.

Trasmissione del 27/1/2016 "La scuola azienda: da Mc Donald's alle tette""

Data di trasmissione
Durata 55m 39s
“La scuola azienda: da McDonald’s alle tette”

 

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“L’uso sterilizzato della memoria/Attualità femminista: La scuola azienda/collegamento con una compagna da Londra/DAVOS/Note di politica trans, ovvero l’importanza di avere delle priorità”

 

“La prima scelta che il capitale fa è di dare o di non dare comunicazione di un evento. E, in questo, ci agevola il compito perché ci dice dove quell’evento è collocato. Successivamente  avvelena l’informazione con la simulazione e la manipolazione. Ed ancora, con la selezione di tutti i testi e con la conseguente rimozione di quelli che entrano in contraddizione antagonistica con l’ideologia ufficiale.

E’ la trasformazione dei fatti accompagnata dalla selezione, per cui certi elementi vengono tradotti in testo ed altri, tramite la voluta dimenticanza, dichiarati inesistenti.”

 

.L’usura del tempo non c’entra con il fatto che una catena di eventi venga ad essere rimossa dalla memoria collettiva. La causa i i processi di dimenticanza e di oblio sono voluti e perseguiti attraverso la falsificazione della memoria storica,la produzione di ricordi sostitutivi, di codificazioni fuorvianti e fraudolente…In luogo del non far sapere si sceglie di far sapere ciò che legittima il potere e,pertanto, funziona come strategia di controllo sociale” ATTI/Memoria collettiva, Memoria femminista 2012 .

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La Parentesi del 27/1/2016 "Davos"

Data di trasmissione
Durata 7m 10s
“Davos”

 

Immagine rimossa. Il neoliberismo, fase attuale dell’autoespansione del capitale sottopone la vita alla guerra e quest’ultima impone a tutti una conseguente violenza esercitata e/o subita.

Disoccupazione, povertà, conflitti etnici e religiosi costituiscono la trama dello sviluppo di questo modello. I ricchi diventano sempre più ricchi e i poveri sempre di più e sempre più poveri.

Sono stati rimossi con scelta voluta i grandi dispositivi della sanità pubblica, del pensionamento universale, dell’assistenza generalizzata ai deboli della società.

In Europa, perché in Usa sono stati già realizzati da tempo, questi processi, promossi dalla socialdemocrazia, risultano particolarmente veloci e precipitosi.

Il comando capitalista in questa stagione dalla fabbrica si è esteso all’intera società. La modalità dello sfruttamento si espande, instaura tecniche di appropriazione capitalistica nuove e, per la stragrande maggioranza delle persone, insostenibili. La sussunzione della società nel capitale oggi allarga indefinitamente lo sfruttamento sull’intero terreno sociale.

Militari, magistratura, media, polizia, Ong, sono messi al servizio di una lotta scatenata per battere un nemico esterno ed uno interno, per riorganizzare una gerarchia dei rapporti internazionali e ridefinire i rapporti di classe all’interno dei singoli paesi. Questo significa distruggere popolazioni, respingerle indietro di secoli, gettare nella disperazione le popolazioni del terzo mondo e i cittadini/e dei paesi occidentali.

Oggi assistiamo alla teoria e alla pratica che la guerra è la prima giustificazione dell’ordine e della sicurezza. La repressione da essere una situazione congiunturale oggi è un dispositivo nei confronti di quelli che vengono espulsi dai benefici del contratto sociale.

Le guerre neocoloniali ammantate da guerre umanitarie sono un passaggio voluto per ridefinire i rapporti di forza internazionali.

Per questo ogni anno a Davos cittadina svizzera del Canton Grigioni, si riuniscono i grandi interessi occidentali per fissare le linee guida dei processi di sfruttamento sulla realtà planetaria. L’incontro è promosso dal Forum economico mondiale, WEF ed è conosciuto proprio come Forum di Davos, associazione, bontà sua, senza fini di lucro, con sede a Cologny, vicino a Ginevra. E’ finanziata dalle circa mille imprese associate, in genere multinazionali con fatturato superiore ai 5 miliardi di euro. Le imprese associate sono quasi sempre leader, nel proprio settore o Paese, e hanno un ruolo chiave nell’orientarne gli sviluppi futuri. La fondazione opera anche come Think Tank e pubblica numerosi documenti di approfondimento, sotto forma di report e analisi di scenario sui temi della crescita economica, della finanza, della sostenibilità ambientale, dello sviluppo sociale e della salute.  La struttura organizza alla fine di gennaio, un incontro tra esponenti di primo piano della politica e dell’economia internazionale con intellettuali e giornalisti selezionati, per discutere delle questioni mondiali che, per i loro interessi, vengono ritenute più importanti. L’incontro è a inviti e si tiene a porte chiuse. In occasione del meeting, i vertici delle imprese associate alla fondazione incontrano una ristretta platea di leader politici, di organizzazioni non governative, sempre utili, di esponenti della comunità scientifica, di leader religiosi e di giornalisti. Il programma dei 5 giorni dell’evento riguarda temi chiave del dibattito mondiale dettati dal punto di vista occidentale e in particolare statunitense.  L’evento, quindi, organizzato dalle grandi potenze finanziarie serve per confrontarsi con i poteri statali e, soprattutto, con il potere imperiale degli Stati Uniti. Davos rappresenta bene la struttura attuale del potere globale gerarchizzato: all’apice ci sono gli Usa e in un rapporto di compartecipazione, ma sempre subalterno, le potenze multinazionali e i governi dei paesi capitalistici avanzati.

Davos è la cartina di tornasole che ci dice qual è la composizione imperialista, come sono articolati i diversi livelli di controllo all’interno del sistema, di esercizio della guerra, e della repressione all’esterno e all’interno contro i popoli del terzo mondo e i cittadini dei paesi occidentali. Questo è il vero ordine del giorno in quella riunione.

Davos è una rappresentazione teatrale del neoliberismo. Il capitale diviene sempre più parassitario e per questo deve ricorrere alla guerra preventiva e si è dato strumenti adeguati trasformando gli eserciti in strutture di controllo per poter intervenire in tutti gli spazi del mondo. E’ stata costruita una rete di dispositivi polizieschi e militari che si integrano e si sostituiscono vicendevolmente. E’ un reticolato di presenze nel territorio il cui principale obiettivo è sconfiggere l’esigenza di libertà, coadiuvato da organizzazioni non governative, banche che fingono di essere benefattrici, media che fingono di raccontare la cronaca.

E’ un salto di qualità nell’organizzazione capillare della violenza legittima.

Perciò i tentativi di sottrarsi a questo monopolio come quelli portati avanti in Brasile, in Argentina, in Bolivia, in Ecuador, in Uruguay, da Kirchner o da Correa, da Chavez prima e da Maduro dopo, o da Mujica o da Rousseff sono il male assoluto nel mirino dell’impero e sottoposti ad attacchi concentrici perché devono essere rimossi con le buone o con le cattive. Ma non credano i benpensanti occidentali di ricavare un qualche ritorno dalle politiche neocoloniali così come è successo nella stagione coloniale.

I territori dei paesi a capitalismo avanzato sono divenuti un luogo dove non si riesce più a distinguere azioni di polizia e guerra a bassa intensità e le città saranno pattugliate come le città della Cisgiordania.

“Nel lungo periodo, l’organizzazione si potrebbe adattare a seconda della situazione. Si potrebbero affrontare sfide quali la guerra nucleare” Questo è quanto ha dichiarato pochi giorni fa, nell’incontro a Davos di quest’anno, l’ineffabile segretario della Nato, Stoltenberg.

I popoli del terzo mondo sono messi al lavoro come schiavi e le popolazioni occidentali sono lasciate senza lavoro o con lavori precari o di risulta. Il loro dramma attuale è di non prendere coscienza del perché la povertà stia diventando una dimensione comune e l’ostentazione della ricchezza sia diventata la sola morale.

Trasmissione del 20/1/2016 "Riflessioni femministe su<L'utero in affitto>"

Data di trasmissione
Durata 1h 13m 23s
Puntata del 20/1/2016 “Riflessioni femministe sull'<Utero in Affitto>”

” Mary Crow Dog/Donna Lakota/L’Utero in Affitto/I nuovi mostri/Femminismo materialista

 

Dice un proverbio cheyenne :una nazione non è conquistata finché i cuori delle sue donne resistono”.

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