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femminismo

La Parentesi del 20/1/2016 "I nuovi mostri"

Data di trasmissione
Durata 4m 28s
“I nuovi mostri”

 

 

Immagine rimossa. Una volta c’era la “macchietta” del pensionato che, mentre aspettava l’autobus o era in fila alla posta, non faceva altro che borbottare contro “le donne, il tempo ed il governo” come diceva De Andrè. E, magari, suscitava anche simpatia perché ricordava il vecchietto masticatabacco dei film western.

Oggi è cambiato ed è stato sostituito da nuovi figuri tutt’altro che simpatici: quello che aggredisce i disperati/e, spesso Rom, che rovistano nelle immondizie, quello che chiama subito i vigili urbani quando qualcuno scrive sui muri o attacca un manifesto, quello che insulta chi chiede l’elemosina o lava i vetri delle macchine ai semafori, quello che ha il cellulare sempre pronto per chiamare i carabinieri e fare la spia quando qualcuno schiamazza o alza la voce. Per non parlare di quelli/e che guardano con sospetto chi veste in modo dimesso e vorrebbero cacciare dai mezzi pubblici chi, secondo loro, puzza. Poi ci sono quelli/e che segnalano subito chi non paga il biglietto e chi, magari, occupa una casa. Come se fosse un piacere lavare i vetri agli angoli delle strade, rovistare nelle immondizie o non avere un tetto sulla testa.

E’ una cultura della delazione, ma quelli che l’hanno fatta propria sono gli stessi, ed è inutile che si nascondano dietro un ditino, che avrebbero segnalato chi era in sospetto d’essere ebreo o partigiano o semplicemente aveva avuto la leggerezza di esprimere critiche al regime.

Anche ora, nel silenzio più totale vengono rastrellati i migranti e le migranti, vengono rinchiusi nei Cie e rispediti nell’inferno da cui sono scappati. Gli zelanti uomini in divisa applicano la legge, la maggioranza tace e fa finta di non sapere e, comunque, pensa che se c’è una legge vuol dire che è giusto così. Per loro la legge è un totem. Senza rendersi conto che per una volta che sono martello, altre mille saranno incudine perché la marea montante dello sdegno cittadino verrà incanalata a seconda delle necessità su una o su un’altra categoria sociale: ora gli immigrati che portano via il lavoro o i dipendenti pubblici assenteisti e rubastipendio, poi i professionisti tutti evasori fiscali e poi i commercianti tutti ladri   e la volta ancora dopo toccherà agli abitanti delle periferie tutti delinquenti.

In pratica sono nati nuovi mostri, frutto di un’ingegneria politica che ha saldato una cultura intimamente fascista, profondamente razzista e classista con il politicamente corretto e che ha sdoganato la parte peggiore dell’essere umano fornendo l’alibi politico attraverso parole come decoro urbano, tutela dell’ambiente, legalità, sicurezza.

Gruppi di volontari puliscono i muri della città o i parchi o i giardini.

Comitati di quartiere si riuniscono contro gli schiamazzi della vita notturna, i cani che sporcano, le macchine in doppia fila, ma restano indifferenti davanti ai militari con il mitra ad ogni angolo della metropolitana e in ogni piazza della città.

Persone che non riescono a pagare la bolletta della luce o del gas, invece di prendersela con chi le ha ridotte così, protestano per il nero che vende occhiali senza permesso e, soprattutto, o dea ! senza scontrino, all’angolo delle strade.

Gente che si fa rapinare quotidianamente dallo Stato, inorridisce per il parcheggiatore abusivo e va a chiamare il vigile, ma non si scandalizza per i parcheggi a pagamento, le ZTL che impediscono di entrare in centro, i divieti di accesso nella città degli dei e non percepisce affatto che tutto quello che viene definito dal denaro è un provvedimento classista.

Si è completamente persa la cognizione di che cosa sia lo Stato, momento organizzativo di chi detiene il potere, e le oppresse e gli oppressi sono stati condotti a lavorare attivamente per chi attivamente li reprime, li controlla e li sfrutta.

E’ fondamentale trovare il modo di uscire da questa cultura politicamente corretta e fascista, nel senso più preciso e politico del termine, da questa gabbia comportamentale che ha inculcato nella mente delle persone i concetti di legalità e sicurezza, veri e propri strumenti di asservimento volontario.

In questo passaggio epocale in cui la borghesia transnazionale si pone come nuova aristocrazia la legalità assume i connotati di un nuovo “ipse dixit”.

 

Trasmissione del 13/1/2016 "Riflessioni femministe su Colonia" e "Noguerra NoNato"

Data di trasmissione
Durata 1h 1m 17s
Puntata del 13/1/2016 “Riflessioni femministe su Colonia”

 

 

Rosa Luxemburg/Riflessioni femministe su Colonia/ Mala tempora currunt/Ricominciamo da tre “Perché il femminismo deve essere contro la  guerra del capitale e contro la Nato”

 

“L’imperialismo è al tempo stesso un metodo storico per prolungare i giorni del capitale
ed il mezzo il più sicuro e più veloce di mettervi obiettivamente un termine.
Ciò non significa che il punto finale abbia bisogno di essere raggiunto alla lettera.
La sola tendenza verso questo scopo dell’evoluzione capitalista si manifesta
già attraverso dei fenomeni che fanno della fase finale del capitalismo un periodo di catastrofi”

 

L’Accumulazione del capitale, III, 31: “Il protezionismo e l’accumulazione”.

 

Immagine rimossa.

 

Immagine rimossa.

 

da http://mojumanuli.noblogs.org/

La Parentesi del 13/1/2016 "Mala tempora currunt"

Data di trasmissione
Durata 4m 14s
 

“Mala tempora currunt”    Immagine rimossa.

Continuano le trattative tra gli Stati Uniti e l’Unione Europea per il TTIP. La prima considerazione che balza agli occhi è che  continuano ad essere segrete. Un trattato che avrà ripercussioni importanti nella vita di milioni di persone viene condotto segretamente. Alla faccia di quelli/e che si riempiono la bocca di parole come democrazia, rappresentatività, partecipazione.

Non è necessario ricordare qui cos’è il TTIP: un attacco a tutto campo alla sovranità dei singoli paesi che minerà le possibilità di sopravvivenza di interi settori economici e industriali nonché un attacco a tutto campo alle conquiste alimentari, sociali, culturali ottenute nei singoli Stati europei. Il TTIP è una vera e propria Nato economica.

La Nato, di fatto, detta la linea politica estera agli Stati aderenti all’Unione Europea. Il TTIP lo farà anche nel campo economico.

Non è sufficiente dire che le lobby delle multinazionali anglo americane fanno pressione, è necessario dire che le stesse dettano l’agenda. Questo non è una novità negli USA dove le multinazionali dirigono la politica in maniera compiuta dai tempi dell’assassinio di J.F.Kennedy. Già Eisenhower, che pure veniva dall’esercito, nel discorso di commiato alla fine del suo mandato presidenziale, denunciò l’invadenza e qualche cosa di più dell’apparato militare industriale. L’espansione e la sempre maggior forza politico-economica che questo settore avrebbe raggiunto nei paesi capitalisti è stata analizzata e raccontata con estrema chiarezza da Rosa Luxemburg.

L’apparato militare industriale statunitense detta ora la politica estera dell’UE tramite il grimaldello della NATO . E si cerca di estendere questa ingerenza diretta  in tutti i campi tramite il cavallo di troia del TTIP. Di fronte all’importanza e alle devastanti conseguenze di questa operazione, colpisce il silenzio e la disattenzione in Italia rispetto al tema, non solo da parte dei media ma anche del movimento antagonista. Certo, i primi sono schierati, interessati e parte integrante del sistema, ma la  disattenzione del movimento è preoccupante .

L’unico paese dove il dibattito è forte e ci sono state imponenti manifestazioni di piazza contro il TTIP è la Germania dove il governo, che è espressione degli interessi dell’industria manifatturiera ed esportatrice, mettendo al primo posto gli interessi di quest’ultima con evidenti riflessi occupazionali, mostra poca propensione all’adesione al TTIP. Perciò balza agli occhi che l’SPD nel suo ultimo congresso, nel dicembre del 2015 dei tanti temi che poteva e avrebbe dovuto affrontare, ha trovato il tempo di discutere e di sancire formalmente per iscritto la sua disponibilità all’ adesione al TTIP.

Qualcuno potrebbe definire questa scelta improvvida dato che va contro gli interessi della Germania e non tiene conto degli umori e delle scelte dei tedeschi. Ma il gruppo dirigente dell’SPD queste cose le sa: Evidentemente ha puntato sull’influenza a tutto campo degli Stati Uniti e spera di eliminare Angela Merkel e di andare al potere da solo con una soluzione all’italiana.

Mala tempora currunt. E’ necessario mettere all’ordine del giorno lo smascheramento e la sconfitta politica della socialdemocrazia che naturalizza nei paesi europei il neoliberismo che vuol dire realizzare compiutamente in Europa la società americana. E passaggio fondamentale è l’uscita dell’Italia dalla Nato

 

Carovana delle compagne del Movimento femminista proletario rivoluzionario

Data di trasmissione
Durata 13m 7s

Tre giorni di incontri a Melfi , Napoli e Roma organizzate dal MFPR a partire dalle lotte delle operaie della Fiat di Melfi

Qui di seguito il comunicato:

 

NEI GIORNI 11 E 12 DICEMBRE: ALLA FIAT DI MELFI, A NAPOLI, A ROMA!

*VENERDI' 11 DICEMBRE *
Lavoratrici rappresentanti delle precarie in lotta delle cooperative di
Palermo, operaie e disoccupate di Taranto, lavoratrici della scuola in
lotta di Milano, lavoratrici del commercio de L'Aquila, studentesse, saremo
alle portinerie della FIAT SATA DI MELFI.
Andiamo per portare direttamente la nostra solidarietà alla battaglia che
le operaie stanno facendo sulla questione tute e a sostenere la denuncia
sul peggioramento delle condizioni di lavoro, pause, ecc. con i loro
pesantissimi effetti sulle donne; ma anche ad affermare che oggi proprio la
Sata dimostra che le operaie alla Fiat possono essere il "tallone di
Achille"di Marchionne e un esempio e incoraggiamento per tutte le
lavoratrici. In questo senso ciò che succede a Melfi ha un valore
nazionale, e deve avere un valore nazionale, perchè parla di dignità delle
lavoratrici, perchè è costruita con il protagonismo diretto delle operaie,
superando una visione di delega verso le direzioni delle OO.SS. che
soprattutto sulle donne sono spesso il problema e non la soluzione.
Andiamo per parlare e preparare insieme un nuovo "SCIOPERO DELLE DONNE" che
abbia il cuore tra le operaie delle fabbriche e le lavoratrici più
sfruttate, oppresse, discriminate; uno sciopero costruito dal basso con le
lavoratrici, facendo insieme una piattaforma (attraverso anche un'inchiesta
tra le operaie) e costruendo una rete tra i vari posti di lavoro e città.
Incontreremo le operaie che stanno portando avanti la battaglia sulle tute
e altro.

In serata dell'11 dicembre saremo a NAPOLI. Andremo, verso le 19, all’ex
Opg occupato "Je sò pazzo", per visitarlo e conoscere questa importante e
nuova esperienza.
Da parte nostra portaremo l'informazione diretta e il clima dalla Sata di
Melfi e parlaremo dello sciopero delle donne, il primo e quello in
costruzione - sappiamo che le compagne e i compagni di Je sò pazzo stanno
avviando un lavoro verso lavoratrici ultraprecarie dei servizi,
ristorazione, ecc. -⁠
e del nostro lavoro, delle lotte di lavoratrici, disoccupate che stiamo
facendo.
Portare direttamente la solidarietà delle lavoratrici alla studentessa
vigliaccamente ferita e molestata dalla feccia di Casa Pound.

*SABATO 12 DICEMBRE*
Saremo a ROMA per la celebrazione/festa del 20° anniversario del Mfpr, per
incontrare lavoratrici, e in particolare le compagne con cui nel 2013
organizzammo la campagna nazionale preparatoria dello sciopero delle donne
(dai presidi del luglio sotto i ministeri, all'assemblea e corteo nelle
manifestazioni nazionali del 18 e 19 ottobre).
A Roma l'assemblea aperta dalle ore 16 si terrà nel contesto
dell’inaugurazione di una nuova libreria dell'usato e d'occasione
"Metropolis" in via Renato Simoni, 65 (vicino alla stazione Tiburtina) dove
vi sarà la musica del cantastorie Federico Berti (BO) e buffet.

A Melfi, a Napoli, a Roma, chiediamo a tutte le compagne, le associazioni,
collettivi di donne, le lavoratrici e donne in lotta, che possono -⁠
soprattutto quelle che sono nelle zone del nostro viaggio - di venire, di
fare insieme questo "viaggio", per il nuovo sciopero delle donne.

Trasmissione del 2/12/2015 "La costruzione della nonnità/genere e classe"

Data di trasmissione
Durata 58m 53s

Questa è l’ultima puntata de “I Nomi delle Cose” del 2015, per problemi organizzativi riprenderemo le trasmissioni mercoledì 13 gennaio!

“I Nomi delle Cose” /Puntata del 2/12/2015 “La costruzione della nonnità/genere e classe”

http://coordinamenta.noblogs.org/post/2015/12/04/podcast-della-trasmissione-del-2122015/

 

Immagine rimossa.

Das Stufenalter der Frau , Le età della donna, Cromolitografia, fine sec. XIX

”  Si può andare, venire, discorrere, scrivere, partire, ritornare, senza dare troppi conti a nessuno; si può amministrare la propriasostanza, grande o piccola, come si vuole(..) Maritarsi è bene, ma è anche male; non maritarsi, è male, ma è anche bene.”

 

 

” Welfare fai da te/ la costruzione della nonnità/ genere e classeChiacchierata con Elena De Marchi /Impero e aristocrazia/La trasmissione tra generazioni/incontro con le studentesse del Liceo Virgilio occupato”

Qui il libro di Elena De Marchi e Claudia Alemani http://coordinamenta.noblogs.org/post/2015/10/09/confronto-generazionale-e-lavoro-di-cura/

L’articolo “IN SERVIZIO PERMANENTE, Welfare  fai da te e cura familiare” di Elena De Marchi si trova su  Zapruder , Storie in movimento , Numero 38, appena uscito, dal titolo “Io sto bene io sto male”.

http://storieinmovimento.org/2015/11/11/trentottesimo-numero/

De Marchi_Zap 38_Zoom

Parentesi del 2/12/2015 "Impero e aristocrazia"

Data di trasmissione
Durata 5m 45s
Impero e aristocrazia

Immagine rimossa.   E’ evidente che ci sono tensioni fortissime nel mondo occidentale che scaturiscono dal tentativo, per molti versi riuscito, di costituire un’aristocrazia multinazionale che si propone di imporsi come soggetto contrattuale con la super potenza statunitense. In Europa l’iperborghesia annidata nelle multinazionali sta smantellando le forze sindacali e partitiche che si oppongono al neoliberismo e, quest’ultimo, significa disoccupazione, povertà, annullamento dello Stato sociale, venuta meno della sanità pubblica, del pensionamento generalizzato, della contrattualizzazione del salario. Tutto questo passa anche, necessariamente, attraverso la repressione e una cultura securitaria che colpiscono particolarmente i gruppi politici e le forze sociali che più contrastano il neoliberismo. La repressione, in tutte le sue articolazioni, sottolinea e caratterizza questo momento storico dell’autoespansione del capitale. E la repressione si colloca nello squilibrio fra strutture nazionali statuali e la ricomposizione capitalistica di fondo che è permeata dallo scontro fra multinazionali e Stati per la ricollocazione delle gerarchie capitalistiche che vedono gli Stati Uniti con il loro alleato inglese, all’offensiva e l’unico interlocutore è l’aristocrazia sovranazionale, l’iperborghesia, che vuole portare in dote al matrimonio la “testa” del mondo del lavoro. Il programma di classe oggi passa, oltre che su obiettivi e scadenze di lotta, anche su una valutazione degli equilibri, degli scontri, dei rapporti di forza che lo sviluppo globale presenta. Questa attenzione non è secondaria perché ne scaturisce la possibilità di porre qualche ostacolo alla voracità con cui l’iperborghesia si serve della socialdemocrazia come arma politica. Oggi, ci troviamo di fronte ad una situazione che non è più il lavoro in fabbrica a determinare i rapporti sociali bensì la messa al lavoro della società e, quindi, lo sfruttamento di tutti coloro che nella società sono attivi.

La classe operaia non ha mai amato il lavoro salariato in fabbrica, lavorare in fabbrica era ed è una terribile oppressione, un’esasperazione della sofferenza e dello sfruttamento della vita. Oggi, questo si è dilatato ed è uscito dalla fabbrica e si è generalizzato nella società tutta. Il blocco sociale che ha dominato l’Italia e i paesi occidentali finora si è rotto per scelta unilaterale dell’iperborghesia. Il capitalismo nella stagione neoliberista e la sovranità imperiale nella sua accezione più compiuta, cioè gli Usa come Stato del capitale, hanno bisogno di controllare la nostra intera esistenza a tutto campo anche con riferimento ai desideri e ai modi di vita e questo si sviluppa attraverso determinazioni gerarchizzanti sempre più forti. Pertanto, le guerre umanitarie sono sempre più insistenti e pesanti e non sono altro che modalità di intervento politico.

C’è una diretta correlazione tra la sottomissione dei lavoratori all’interno dei singoli paesi occidentali, tra le politiche di ristrutturazione interna e l’imposizione e la transizione nei paesi del terzo mondo da regimi “totalitari” a regimi così detti “democratici”.

Paradossalmente, ma purtroppo è così, lo scontro è solo nell’ambito del capitale. Si tratta di sapere chi sarà alla guida dell’Impero, se saranno gli americani in quanto nazione o l’aristocrazia sovranazionale. Pertanto, viviamo all’interno di un interregno capitalistico nel quale si svolge una guerra per comprendere chi dovrà governare, quali sono le trasformazioni delle filiere del comando e di ridefinizione delle classi sociali.

Dobbiamo nuovamente dire e riconoscere che cosa sia il potere e che cosa sia lo sfruttamento e su questo versante, possiamo capire chi è il nostro nemico e chi il nostro compagno.

Dobbiamo leggere che cosa sono divenuti i concetti di guerra e pace, di Stato-Nazione, di cittadinanza e diritti, di privato e di pubblico, ed ancora Nazioni Unite e diritto internazionale. E intorno alla consapevolezza di questi nodi, da come prendiamo posizione all’interno del passaggio storico nel quale viviamo, noi siamo in grado di scegliere amici e compagni/e di lotta, noi per i quali la libertà politica, l’amore per l’uguaglianza sociale, la resistenza contro il potere e il rifiuto della povertà camminano insieme.

La guerra che oggi ci è imposta investe la vita di tutti/e e di questo dobbiamo prendere coscienza, passaggio ineludibile per sperare di trasformarla in un movimento di lotta per la liberazione. Non c’è alternativa a questo obiettivo, non è possibile pensare la rivoluzione senza tutti i soggetti che possono contribuire alla sua realizzazione. Dobbiamo rimuovere con forza quella che è una delle caratteristiche del neoliberismo, cioè il concetto che povertà, gerarchia sociale, colonialismo siano una sorta di darwinismo economico-politico che, in definitiva, non è altro che un ritorno all’ottocento. Tanto più in una stagione in cui la guerra è divenuta la base stessa della politica, guerra interna ed esterna.

Da qui la necessità di riprendere le fila dell’analisi di classe a partire dai temi della teoria, della linea, del programma. In definitiva del progetto della rivoluzione.

Non c’è separazione tra economia, mercato mondiale, temi internazionali e rapporti interni agli Stati nazione e, quindi, con le stesse regole dei rapporti sociali di cittadinanza e, in definitiva, di classe.

Nell’impero e intendiamo quello a guida statunitense, aree di mercato organizzate sono auspicabili, ma gerarchizzate dentro e sotto lo sviluppo del comando imperiale. E questo vale anche per l’Europa che è la più importante fra le varie potenze continentali.

Siamo di fronte a una storia di amore e odio fra gli Stati Uniti e l’Europa e quando diciamo Europa è chiaro che l’Inghilterra non ne fa parte. In questa situazione l’iperborghesia europea si scontra con lo Stato del capitale dentro un equilibrio instabile. Questo è il senso della lettura diversa delle sanzioni alla Russia e degli attacchi all’economia tedesca, ammantati da nobili motivazioni.

Da un lato lo Stato del capitale presenta una proposta imperiale unilaterale nel suo progetto di dominio del mondo, dall’altro le iperborghesie europee multinazionali tentano di costruire una relativa indipendenza. Quindi l’Europa si trova oggettivamente collocata su di un terreno che non sempre coincide con gli interessi imperiali statunitensi. E’ su un terreno così pregnante che si può leggere l’attacco americano ai tentativi di quegli Stati europei che tentano di tutelare gli interessi delle loro iperborghesie. L’indipendenza europea all’imperialismo americano non è possibile a livello militare, ma cerca di realizzarsi nel differenziarsi rispetto alle scelte settoriali, ma anche questo è reso difficile dalla minaccia non solo militare, ma anche dalle ritorsioni economiche mascherate da provvedimenti a tutela dell’ambiente, dello sport, del diritto internazionale.

Ad oggi, lo scontro è impari perché la struttura imperiale statunitense non è semplicemente uno spazio geografico, ma costituisce un’unità di potere che si irradia in tutte le sfere e in tutti i paesi e pertanto non è soltanto un ritorno all’ottocento, ma è anche un nuovo feudalesimo fondato sull’azione unilaterale americana  che auspica ed è organizzata per ridurre gli stati nazionali a feudi da dare in gestione alle aristocrazie multinazionali locali il cui compito principale è configurare la legittimità imperiale. In pratica gli Stati Uniti accettano le aristocrazie nazionali, le iperborghesie locali, ma nell’ambito di una organizzazione piramidale.

Il primo passo è la rimozione del personale politico locale-nazionale e la sua sostituzione con funzionari politici che accettano in toto il neoliberismo nell’accezione e versione statunitense.

Questi, a loro volta, a cascata, rimuoveranno dai vertici delle grandi aziende statali e parastatali il personale tecnico dirigenziale già selezionato con i criteri che facevano riferimento al vecchio e sconfitto blocco sociale, con funzionari che tradurranno nel loro ambito le direttive governative che, a loro volta, naturalizzano gli interessi statunitensi nei rispettivi paesi. Non sono immuni da questo tornado le grandi aziende private e le organizzazioni internazionali di qualunque tipo, comprese quelle sportive. Nei loro confronti si sparerà con inchieste, denunce, multe, che ne piegheranno ogni velleità autonoma, rimuovendole o consegnandole a personale dirigente ossequioso e servile agli interessi della “casa madre”, cioè degli Stati Uniti. E’ con questa lente che dobbiamo leggere tanti avvenimenti perché il filo nero che li collega è molto più facile da rilevare di quanto tanti/e non propriamente in buona fede non facciano.

Essere attenti/e alla lettura non è soltanto un momento teorico-intellettuale, ma è un’esigenza di sopravvivenza per il mondo tutto visto che gli Usa, che spingono per un dominio unilaterale del mondo, sono guidati dalle multinazionali anglo-americane e queste ultime non hanno nessun tipo di remora, davanti a niente.

Trasmissione del 25/11/2015 "I ruoli, le donne, la lotta armata"

Data di trasmissione
Durata 1h 10m 58s
“I Nomi delle Cose” /Puntata del 25/11/2015 “Il valore politico della rottura”

 “Quale valore hanno il nostro vissuto e le nostre azioni, la nostra storia anche, in un mondo che non ci riconosce e che non accettiamo? Come fare a essere quel qualcosa che illumina la notte con delle fiammelle così deboli?/DESMONAUTICA, la rubrica di Denys ogni ultimo mercoledì del mese ” Una volta per tutte, la tecnologia non ci rende asociali”

 

“25 novembre 2015/”Spezzare la normalità dell’esistente”

Immagine rimossa. Immagine rimossa.Immagine rimossa.

Immagine rimossa.

 

Desmonautica del 25/11/2015 "Una volta per tutte..."

Data di trasmissione
Durata 10m 18s

http://coordinamenta.noblogs.org/post/2015/11/26/una-volta-per-tutte-la-tecnologia-non-ci-rende-asociali/

Da “I Nomi delle Cose” del 28/10/2015 “Desmonautica“ la rubrica di Denys ogni ultimo mercoledì del mese.

Una volta per tutte, la tecnologia non ci rende asociali.                              

La tecnologia ci rende asociali. Questo è il ritornello di un mito culturale di questo secolo, proposto e riproposto in forme varie.

Immagini virali da condividere sui social media, nella nostalgia dei famosi bei tempi andati, privi di computer ma densi di genitori severi e pallone sotto casa, che però forse se sono andati così belli non erano. E con esse la considerevole ironia di fondo di accusare la tecnologia di depauperamento sociale non rendendosi conto che senza di essa simili frecciatine incasellate in un flusso di bit non potrebbero nemmeno essere recapitate. Articoli sensazionalisti sul pericolo delle mancanze umane delle nuove generazioni, presunte native digitali. Vignette prodotte in serie con gente al bar o in metropolitana che scrive sulla tastiera, parla al telefono e col vicino di caffè o di sedile. In un impeto di panico morale che si chiede dove andrà a finire l’insostituibile e intoccabile fisicità dei rapporti umani, la tecnologia sarebbe artefice del restringimento e della superficializzazione degli spazi e dei contenuti della socialità e della comunicazione interpersonale.

Questo tipo di rappresentazione è a dir poco capziosa, ma sociologicamente interessante, poiché inquadra a perfezione un malumore condiviso circa i cambiamenti sociali di questa epoca. Disagio che molti definirebbero, a torto, generazionale; e se statisticamente in buona parte potrebbe esserlo, in realtà bisogna osservare che anche una parte non ignorabile di cosiddetti giovani d’oggi custodisce gelosamente l’invidia del ritorno al passato e alle sue certezze. Anche di questo dovrebbero tenere conto questi baldi antimodernisti, quando creano ad hoc generalizzazioni anagrafiche. Coerenti nel loro rigetto dell’attualità, si rifanno a mediocrità con origini tutto fuorché recenti. Sia Platone che Socrate già criticavano la scrittura come forma di impedimento della saggezza: la scrittura avrebbe eliminato il bisogno di memorizzazione tipico dell’oralità, sarebbe potuta essere fraintesa e altre amenità. Entrambi erano, a ben vedere, precursori della lamentela imperitura che accompagna ogni dirompente novità nelle società umane.

Non è mai esistito un tempo in cui, dal nulla, le persone spontaneamente inciampavano in altre persone in luoghi pubblici e per magia davano i natali a mirabili conversazioni filosofiche. In realtà, la gente è sempre uscita di casa per andare a bere in osteria, a leggere i giornali sul treno e relativi esempi di genuina umanità media. Se è vero che gli umani sono animali sociali, è anche vero che sono sociali in modalità e tempi differenti tra loro. Esistono persone introverse, persone con ansia sociale, persone estroverse ma molto timide, persone nello spettro autistico e molte altre persone ancora che esistono da sempre e hanno tutte le ragioni possibili per voler evitare contatti spurii privi di criterio.  Tuttavia, qualcosa in effetti il web l’ha cambiata: ha reso possibile un ampliamento e un elevamento del livello qualitativo della propria rete sociale.

In questa epoca, una persona con accesso a Internet di fatto può accedere a livelli di calore umano e solidarietà a cui potrebbe non avere accesso nella sua rete sociale in carne ed ossa. Nella presunzione di asocialità, non si tiene infatti in considerazione il potenziale plausibile livello indignitoso di chi circonda il cosiddetto asociale. Non è chiaro per quale ragione una persona dovrebbe preferire conversare con un perfetto sconosciuto, magari palesemente inadatto rispetto ai bisogni di relazionamento della persona in questione in quanto già manifestatosi come cretino, carogna e altre sgradevolezze, quando può alzare la cornetta metaforica e comunicare con una rete di individui ed individue dove esiste una collaudata sintonia relazionale e reciprocità d’affetti. Le congetture sulla maggiore autenticità e profondità del vis à vis sono quelle che sono, congetture, e invero tradiscono l’elitarismo di ritenere culturalmente legittime solo forme comunicative adatte alle esigenze della maggioranza. Nutrirei sincero interesse nel rilevare quante persone, seguaci di questo mito, si siano mai commosse di fronte a una conversazione del sabato mattina piuttosto che di fronte a una lettera, tecnologia a base di cellulosa e non di silicio, ma pur sempre tale, e solo temporaneamente sostitutiva di un’interazione fisica, esattamente come un contatto virtuale. Bisogna poi notare che la percezione del fenomeno è statisticamente deviata. Poiché navigando si vedono perlopiù persone che si compiacciono legittimamente delle loro presenze virtuali, si dà per scontato che simili posizioni siano rappresentative della popolazione generale. Questo pensiero è inconsistente: se non esiste una tendenza oppositiva quasi militare rispetto alla presunta asocialità digitale, non è perché non esiste affatto. È perché chi razzola ciò che predica si situa già al di fuori del mezzo, rendendosi invisibile. Se questo tipo di opposizione non esistesse affatto, non ci sarebbero in primo luogo le manifestazioni di sottile, piccata critica che loro stesse espongono con orgoglio.

La distinzione fra il digitale e il reale è del tutto artificiosa. Il digitale è il reale. A meno che non si voglia dire che reale è soltanto ciò di cui nella nostra limitata esperienza sociogeografica possiamo fare esperienza, e qui emerge l’egocentrica contraddittorietà di volere, dalla propria posizione di viandante del mondo globalizzato, fare di casa propria l’unico mondo esistente.

Se però ciò che si problematizza è il disgregamento dei legami in genere, questo non viene da spasmodiche propensioni al clic, bensì da complesse modificazioni della struttura economica. È la filosofia del capitale che glorifica l’individualismo e le sue emanazioni. Infatti, ecco la fissazione per il concetto di responsabilità individuale e di merito, la mitologia del self made man ora rielaborata in chiave geek col movimento dei makers, perlomeno dalle sue componenti più dogmatiche nel loro tecnoutopismo, dove il futuro è sempre e comunque positivamente connotato come entità di intrinseca inclinazione progressista. Ciò che è successo è che abbiamo lasciato che la politica diventasse tecnica senza porci il problema di inventare e adoperare la tecnica in una modalità che rispondesse alle esigenze del nostro attivismo politico, ignorandola a piè pari come un di più, un di più che però costituisce una parte fondamentale della contemporaneità. Non è che si guardi allo schermo per non agire nel mondo, è piuttosto vero il contrario, si guarda allo schermo perché non esiste nessun tentativo organico e razionale di organizzare le forze sociali reali in una direzione utile. Tutto questo a scapito delle comunità, e a questo punto non conta molto che esse siano di carne o di pixel.

 

Parentesi del 18/11/2015 "Perché a Parigi?"

Data di trasmissione
Durata 5m 46s
Perchè a Parigi?
Immagine rimossa. Immagine rimossa.“Perché a Parigi?”

di Elisabetta Teghil                       

Centinaia di morti civili sono all’ordine del giorno nei paesi mediorientali, ma la notizia scivola come un dato di cronaca senza provocare particolare commozione. Quando questo avviene in un paese dell’Europa occidentale suscita una mobilitazione e un interesse assolutamente diverso e più importante rispetto a tanti analoghi episodi che tutti i giorni insanguinano quegli sfortunati paesi.
Dove sta la differenza? Forse la risposta ce la dà Aimé Césaire: ”Ciò che il borghese del XX secolo, tanto distinto, tanto umanista e tanto cristiano, non riesce a perdonare a Hitler, non è il crimine in sé, l’umiliazione dell’uomo in sé, ma il crimine contro l’uomo bianco, il fatto di aver applicato all’Europa procedimenti colonialisti, riservati, fino a quel momento, agli arabi d’Algeria, ai coolies dell’India e ai neri africani”.
Tutto è cominciato quando gli Stati Uniti, appoggiandosi per motivi geopolitici al governo pakistano, hanno foraggiato, finanziato ed armato la parte più retriva della società afghana, nella fattispecie i Talebani, che hanno rovesciato in un crescendo di violenze inenarrabili un governo democratico e progressista .Gli Usa, forti di quel successo e del concorso di una sinistra riformista e socialdemocratica che ha partecipato in vari modi a quei delittuosi avvenimenti, hanno replicato il gioco in tanti altri paesi. Per ricordare gli ultimi l’Iraq, la Libia e, attualmente, la Siria. I morti civili in quei paesi sono tanti e tali che è praticamente impossibile darne il numero se non con approssimazione, ma si tratta certamente di milioni. Sempre a questo proposito, il colonialismo è stata la disumanizzazione di popolazioni intere ed è stato realizzato attraverso il terrore assoluto fino a rendere vana l’idea stessa di resistenza. Tutto ciò sta avvenendo nei confronti dei popoli mediorientali con la creazione e il sostegno materiale e finanziario dell’Isis da parte degli USA che si sono appoggiati, in questo caso, agli Stati più reazionari di quell’area geografica, Arabia Saudita, Emirati Arabi, Qatar e Turchia.
Inutile girarci intorno, l’Isis è una creatura degli Stati Uniti. Ma qualcuno dirà, perché proprio Parigi?
Perché la Francia ha ripreso in maniera forte il progetto neocolonialista, tanto è vero che truppe francesi sono presenti in vari scenari soprattutto nelle loro ex colonie dove interferiscono in maniera prepotente negli affari interni rovesciando governi, imponendo loro uomini di fiducia e rastrellando le ricchezze di quei paesi con la complicità dei loro quisling.
Ma perché la Francia da quando è presidente Francois Hollande sta percorrendo senza scrupoli questa strada?
Intanto perché i socialdemocratici, comunque si chiamino, e in Francia si chiamano partito socialista, avendo sposato la causa neoliberista, hanno portato in dote l’impianto teorico del ritorno al colonialismo che una volta verteva sulla diffusione della civiltà cristiana, del commercio e del progresso e oggi si giustifica nei diritti umani, nei mercati e nella democrazia.
A questo si deve aggiungere che il personale politico francese non è di nuovo conio, ma è l’onda lunga per “discendenza” e “matrimoni” del personale politico che a suo tempo gestì le colonie. Ed ancora, una delle caratteristiche figlie del neoliberismo è che lo stesso seleziona un personale, in questo caso politico, particolarmente mediocre ed Hollande ne è l’esempio. La politica estera francese ha ripristinato il concetto di protettorato, una parola che non si usava più pronunciare dagli anni ’50, tornata alla ribalta con il revisionismo storico che ha rivalutato il colonialismo. La rilettura del colonialismo e il suo rilancio sono il risultato di un’operazione teorica parte del progetto neoliberista che ci conferma che quest’ultimo è una visione complessiva del mondo ed è pertanto un’ideologia.
Ma, per tornare alle vittime di Parigi, bisogna se non altro dire che il più grande eccidio civile in Francia nel dopoguerra non è stato quello del 14 novembre di quest’anno, ma quello del 17 ottobre del 1961, quando una manifestazione di algerini francesi che chiedevano indipendenza per il proprio paese fu repressa nel sangue. Manifestazione indipendentista che aveva assunto anche un aspetto sociale: gli invisibili abitanti delle periferie più squallide, che producevano alla Renault e nelle altre fabbriche della Parigi operaia, invasero il centro della “ville lumière”, vetrina del benessere e della “grandeur” francesi. La manifestazione era assolutamente pacifica, la chiamata era contro l’imposizione del coprifuoco alla popolazione algerina e diceva testualmente “ non saranno tollerate armi – “neanche una spina” – né comportamenti violenti” e parteciparono in trentamila comprese famiglie, donne e bambini. Ancora oggi non si sa esattamente quanti siano stati i morti, non è stato neanche mai possibile definirne la cifra, approssimativamente fra i duecento e i trecento. Per settimane la Senna riportò a galla decine di cadaveri. La polizia di allora disse che i morti erano stati tre e che si era dovuta difendere da manifestanti armati. Da quel tragico giorno si sono succeduti numerosi governi, nessuno ha voluto e saputo raccontare quegli avvenimenti, neanche i vari personaggi istituzionali che si sono avvicendati nella magistratura e nella polizia. Nessuno è stato chiamato a risponderne. Nessuno ha pagato. E’ calato un silenzio tombale che ha ucciso per la seconda volta donne, bambini, anziani e uomini. A proposito di questi ultimi molti dei cadaveri recuperati erano evirati, a conferma dell’efferatezza di quelle uccisioni e a smentita di una presunta superiorità della civiltà bianca. A questo silenzio si sono accodati accademici e storici, quell’episodio non viene citato in nessun libro di storia, come allora non fu riportato da nessun giornale tranne che dall’Humanité e dalle riviste Temps Modernes e Testimonianza Cristiana, e fu denunciato solo da pochi coraggiosi intellettuali come Jean Paul Sartre, Jean Luc Einaudi e dallo storico Pierre Vidal-Naquet. Da questo punto di vista non è cambiato niente.
Per la strage del 14 novembre è stato sottolineato che gli attacchi sono stati simultanei in diversi posti, ma anche nel 1961 non ci fu solo la repressione rispetto al corteo, ma fu organizzata anche in altri luoghi di Parigi, nella sola prefettura ci furono cinquanta morti.
Nel 1989 è stata fondata un’associazione, “Au nom de la mémoire”, composta soprattutto dai figli delle vittime di quell’avvenimento e che pone invano tre richieste: il riconoscimento degli avvenimenti del 17 ottobre come crimine contro l’umanità, il libero accesso agli archivi per quanto concerne la storia della guerra d’Algeria, l’inserimento dei fatti del 17 ottobre nei manuali di storia.
L’Isis è come gli Harkis, un corpo di algerini collaborazionisti guidato da ufficiali francesi a cui veniva demandato il lavoro più sporco e che si sono coperti di crimini orrendi nei confronti dei loro connazionali. Agli Harkis erano stati dati due alberghi nel quartiere popolare parigino della Goutte d’Or, alberghi che erano veri e propri centri di tortura.
I rastrellamenti degli algerini erano all’ordine del giorno, le famose “rafles”, retate che venivano chiamate “la caccia ai topi”. Per coprire il tutto furono, poi, emanate quattro amnistie ed una serie di regolamenti che impediscono l’accesso ai documenti degli Archivi di Stato fino a cent’anni dall’accadimento degli stessi.
Il 20 ottobre di quell’anno, le donne algerine indissero una manifestazione e il 9 novembre andarono davanti alle carceri dove era in atto uno sciopero della fame delle detenute e dei detenuti.
L’infamia borghese in tutte le sue articolazioni, si manifestò anche nel febbraio del 1962 quando l’OAS effettuò un attentato che uccise una bambina di quattro anni e quando, nella manifestazione di indignazione e di protesta che ne seguì, indetta dalla CGT e dalla CFTC, a Parigi, alla stazione del metrò Charonne, la polizia uccise otto manifestanti, un nono morì in seguito alle ferite. Una delle vittime, Fanny Dewerpe, era sfuggita ai rastrellamenti durante la guerra, suo cognato era stato fucilato nel 1944, suo marito René era stato manganellato a morte il 28 maggio 1952 nel corso di una manifestazione per la pace, a conferma che la borghesia ha tanti volti, ma l’essenza è sempre la stessa.
Noi i nomi delle vittime di Metrò Charonne li conosciamo tutti, ma quelli degli algerini massacrati il 17 ottobre, quasi nessuno. Anche nella morte sono diversi.
Diffondere la conoscenza di questi crimini è il modo migliore di rendere giustizia ai morti.
Allora ce la vogliamo dire tutta fuori dai denti? Nelle banlieues parigine si è festeggiato per quello che è accaduto e siccome siamo in vena di sincerità diciamo che parte della colpa è anche nostra, e parliamo della sinistra di classe. Non abbiamo saputo raccontare quegli episodi, abbiamo partecipato all’ oblio, non abbiamo saputo dare sponda e progetto alle loro attese, abbiamo lasciato vuoto uno spazio e perciò abbiamo consegnato tanti giovani all’integralismo islamico. La religione ha saputo essere quel collante che la sinistra di classe non è riuscita a dare. Dovremmo riflettere su questo.
Qualcuno dirà: ma dove sta la differenza tra la Francia e l’Italia? Anche noi abbiamo al governo socialdemocratici neoliberisti, che da noi si chiamano PD, anche noi abbiamo una classe dirigente mediocre, anche noi abbiamo partecipato a tutte le così dette guerre umanitarie, addirittura all’aggressione alla Libia, facendoci portare via un paese con cui avevamo un rapporto privilegiato ereditato dall’esperienza coloniale. Dove sta la differenza? La differenza è che l’Italia è supina agli Stati Uniti e non ha velleità di avere una politica estera autonoma da quella statunitense. Con Nicolas Sarkozy ( quest’ultimo sta a Charles de Gaulle come Carlos Menem sta a Juan Domingo Peròn) la Francia ha ridefinito il rapporto con la Nato e dentro la Nato e ha reimpostato i Servizi. Questi ultimi sono tacciati di impreparazione e pressapochismo, ma a suo tempo, avevano dimostrato grande efficienza nel salvaguardare la vita di Charles de Gaulle. Evidentemente il rapporto privilegiato con gli Usa e il ridefinito rapporto con la Nato non sono la soluzione, ma il problema e non si conciliano con una politica estera indipendente.
In definitiva, tutto nasce dal progetto neoliberista che i paesi del terzo mondo devono sottomettersi e conoscere una nuova era di colonizzazione caratterizzata dall’arroganza dei colonizzatori convinti di far parte di una categoria superiore, più civilizzata, più progredita e dal disprezzo che questa ha dei colonizzati, tanto che a volte arriva a considerarli come non appartenenti al genere umano.
L’oscena strumentalizzazione dei fatti di Parigi con la richiesta di maggiori risorse e mezzi alla polizia, all’esercito e ai Servizi, in definitiva con la canonizzazione del “bisogno di sicurezza”, è in correlazione diretta con la disoccupazione cronica, la normalità della precarietà, l’esclusione dai diritti di cittadinanza di chi è fuori dal mercato del lavoro, l’aumento dei poveri, dei senza casa, dei marginali, degli immigrati e il tutto non è il frutto sgradito della politica neoliberista, ma ne è la sostanza. Questo è il senso delle politiche securitarie, un’impostazione atta alla ridefinizione dei rapporti di forza con il mondo del lavoro, una compiuta colonizzazione dei popoli dei paesi occidentali così come già avvenuto negli Stati Uniti, una guerra a tutto campo sul fronte esterno e sul fronte interno mettendo in preventivo la guerra nei confronti della propria popolazione, trasformando aree geografiche, etnie, ceti, ambienti in colonie interne.
Il vero destinatario delle politiche securitarie è il lavoro e il lavoratore. E’ nell’ambito di questa impostazione che la polizia acquista un potere che non ha mai avuto in passato e gli eserciti nazionali diventano truppe colonialiste ad uso interno e che la Nato si trasforma in un organo di polizia internazionale. Polizia, eserciti nazionali, Nato hanno come scopo diretto e fondamentale la salvaguardia armata degli interessi del capitale contro il lavoro. Ne consegue la necessità della fine del capitalismo, ma questa passa attraverso la sconfitta politica del neoliberismo e dei suoi funzionari politici, la socialdemocrazia. Nella deriva dei continenti politici partitici la socialdemocrazia è diventata la destra moderna, conservatrice e reazionaria e sposa in Italia e in Europa la causa statunitense, nella stagione in cui gli Usa tentano di imporsi come impero.
Come una volta le potenze coloniali usavano gli ascari, ora usano l’Isis, ma come succedeva anche una volta, spesso gli ascari sfuggono di mano. O meglio chi toglie le armi agli ascari quando non sono più utili?

 

Trasmissione dell'11/11/2015 "TTIP" e "25 novembre"

Data di trasmissione
Durata 58m 43s
“I Nomi delle Cose” /Puntata dell’11/11/2015 “TTIPImmagine rimossa.  e “La coordinamenta verso il 25 Immagine rimossa.novembre”

 

“Mi dicevano
è meglio se sorridi a bocca chiusa.
Mi dicevano è
meglio se ti tagli i capelli lunghi,
così crespi,
sembri ebrea.
Mi zittivano nei ristoranti
guardandosi intorno
mentre gli specchi sopra il tavolo
riverberavano beffardi in infiniti
riflessi un volto rozzo, squadrato.
Mi chiedevano perchè
quando cantavo per le strade.
Loro alti, grandi al tè
coi loro modi melliflui, didattici
io con gli occhi sul piattino
che cercavo di nascondere la bomba
a mano nella tasca dei calzoni,
e mi rannicchiavo dietro il pianoforte.
Mi deridevano con riviste
piene di seni e merletti, contenti come pasque
quando il primogenito del dottore
sposava una ragazza tranquilla e carina.
Mi raccontavano storie
di signore eleganti e sportive
e le loro diverse carriere.
Mi svegliavo la notte
con la paura di morire.
Costruivano schermi e divisori
per nascondere il desiderio
non bello a vedersi
a sedici anni
inesperta disperata
mi abbottonarono dentro vestiti
a fiori rosa.
Aspettavano che io finissi
per riprendere la conversazione.
Sono stata invisibile,
strana e soprannaturale.
Voglio il mio vestito nero.
Voglio che i capelli
mi si arriccino selvaggi.
Voglio riprendere la scopa
dall’armadio dove l’ho rinchiusa.
Stanotte incontrerò le mie sorelle
nel cimitero.
A mezzanotte
se ti fermi al semaforo
nel traffico umido della città,
guarda se ci vedi contro la luna.
Noi gridiamo,
noi voliamo,
noi ricordiamo e non smetteremo.”

STREGA (1969) di JEAN TEPPERMAN