Dalle mura di Ponte Galeria a quelle di Rebibbia: il racconto di chi ora è libera
In redazione con una giovane compagna che ci racconta la sua storia in Italia e la recente detenzione nel CIE/CPR di Ponte Galeria e nel carcere di Rebibbia.
In redazione con una giovane compagna che ci racconta la sua storia in Italia e la recente detenzione nel CIE/CPR di Ponte Galeria e nel carcere di Rebibbia.
Sull'argomento, ascolta anche la puntata di Silenzio Assordante. Di seguito il comunicato di indizione.
Il 22 gennaio 2017 muore a Napoli, nell’ospedale San Giovanni Bosco, Stefano Crescenzi di anni 38.
Stefano era entrato in carcere il 19 marzo 2013 e sin dall’inizio della sua carcerazione il suo stato psico-fisico si era rivelato del tutto inadeguato a sostenere il regime detentivo. Di lui, infatti, si sapeva che era sottoposto da anni ad una specifica terapia farmacologica poiché, a causa di un grave incidente stradale, soffriva di crisi epilettiche oltre ad essergli stata diagnosticata una sindrome bipolare. Sua madre si era immediatamente recata al commissariato per consegnare a coloro che avevano eseguito l’arresto i farmaci necessari alla salute di Stefano. Nonostante le rassicurazioni lo sforzo della madre risultò vano: i farmaci e la prescrizione medica non furono mai dati a suo figlio…
Durante il suo primissimo periodo di detenzione, passato nel carcere romano di Regina Coeli, Stefano provò a togliersi la vita ma un suo compagno di sezione riuscì a salvarlo.
I segnali premonitori di quanto sarebbe accaduto c’erano già tutti ma chi gestisce le vite altrui, i carcerieri nei loro molteplici peculiari ruoli (giudici, secondini, personale medico detentivo, periti di tribunali, colletti bianchi del DAP etc. etc…) non hanno occhi per vedere, accecati come sono dal loro ruolo di potere e di giustizieri. Stefano viene ritenuto uno che finge di stare male, perché in realtà ciò che vuole è uscire dal carcere… Porsi la banale domanda sul “chi non lo vorrebbe?” è legittimo ma ci porterebbe da un’altra parte.
Il Dap (come spesso accade) inizia a fare di Stefano uno dei tanti “pacchetti postali” che di punto in bianco si trovano ad essere trasferiti da un carcere ad un altro. Regina Coeli, Torino e Terni, dove sembra alla fine essere assegnato. In quest’ultimo carcere le condizioni di salute di Stefano precipitano ed i familiari, che vanno regolarmente a trovarlo a colloquio, in pochi mesi si trovano di fronte un ragazzo dimagrito di oltre 50 kg, che si muove su una sedia a rotelle quasi sempre accompagnato da un altro detenuto, che persevera in atti autolesionisti, che non riesce a mangiare ma continua ad essere imbottito di psicofarmaci diversi da quelli che assumeva quando era libero, avendo il personale medico deciso di cambiargli la cura.
Da Terni, Stefano, viene mandato a più riprese ma sempre per brevi periodi nel carcere di Livorno e lì detenuto nel reparto di osservazione. Nel frattempo i suoi familiari presentano varie istanze al giudice competente chiedendo che il proprio caro venga ricoverato in arresto domiciliare presso un ospedale al fine di ricevere le cure adeguate. Il giudice, alla loro terza istanza, decide per una consulenza nominando un medico legale al fine di eseguire una perizia medica. La sera dello stesso giorno in cui il perito redige la relazione medica per la quale, a suo avviso, Stefano non solo è compatibile con la detenzione ma anche le cure ricevute all’interno del carcere sono adeguate, la direzione di Livorno decide di non voler più correre rischi assumendosi la responsabilità della vita di Stefano e, da buon Pilato, se ne lava le mani: lo trasferisce nel carcere di Secondigliano, dove c’è un reparto clinico.
Ma ormai è troppo tardi. Da Secondigliano, dopo una settimana, viene mandato urgentemente all’ospedale Cardarelli e da lì al San Giovanni Bosco in reparto rianimazione. Ed è lì che Stefano morirà il 22 gennaio.
Una storia, una storia come tante come troppe. Dall’inizio di quest’anno già 35 detenuti sono morti all’interno delle galere. Una storia alla quale non è possibile rassegnarsi. Non certo i familiari di Stefano i quali con coraggio e determinazione portano avanti la loro personale battaglia affinché quanto accaduto al loro caro non accada più. Queste le parole di Tamara, mamma di Stefano: “Non c’è solo mio figlio. E’ successo a mio figlio? Può essere che se noi denunciamo quanto accaduto la prossima volta questi giudici ci pensano due volte prima di rifare la stessa cosa con un’altra persona! C’è tanta gente che purtroppo finisce in galera! E allora, io lo faccio pure per gli altri! Per mio figlio e pure per gli altri!”
Ancora una volta l’arroganza degli esecutori della legge, il loro pregiudizio, ha avuto ragione sulla vita di qualcuno decretandone la morte. Ancora una volta il carcere si dimostra uno strumento esiziale. Scopo del carcere è distruggere: l’identità, il pensiero, la dignità, l’agire e persino i corpi di chi lì viene sequestrato.
Parlano di “custodia cautelare” ma si trasformano in carnefici!
SABATO 20 MAGGIO ORE 15:00
DAVANTI IL CARCERE DI LIVORNO – VIA DELLE MACCHIE
ODIANDO IL CARCERE GIORNO DOPO GIORNO
PRESIDIO IN SOLIDARIETÀ CON LE PERSONE DETENUTE E I LORO FAMIGLIARI.
PERCHÉ QUELLO CHE È SUCCESSO A STEFANO CRESCENZI NON SUCCEDA MAI PIÙ
Per chi vuole organizzarsi e partire con i pullman da Roma: evasioni@canaglie.org
Il 12 maggio 1977 migliaia di persone scendevano in piazza sfidando il divieto di manifestare. Tra loro la compagna diciottenne Giorgiana Masi, in strada per celebrare l'anniversario della vittoria referendaria che garantiva il diritto al divorzio. Giorgiana quel giorno venne assassinata da un colpo sparato per mano della polizia. Ogni anno da quel giorno le donne, le compagne, le femministe sono scese in strada per ricordare Giorgiana e la violenza patriarcale, repressiva dello Stato che l'ha uccisa. Quella contro Giorgiana è una violenza di Stato. Giorgiana è solo una delle e dei tant* che quotidianamente sono colpite dalla violenza strutturale di una società fondata sui privilegi di genere, di classe, di etnia. La violenza che ha colpito lei, mentre si ribellava ad un divieto, ha la stessa mano della violenza che colpisce la moglie che si ribella al marito, la lavoratrice che lotta per migliorare la propria condizione, la migrante che si ribella ad una espulsione, chi scappa da una retata mentre cerca di sopravvivere. A pochi metri da dove Giorgiana è stata uccisa, pochi giorni fa la violenza dell'ordine costituito ha fatto un altro morto: Niang Maguette, lavoratore immigrato dal Senegal, stava lavorando per sostenere se stesso e i suoi figli quando la violenta brutalità di una retata di vigili e polizia in borghese, trasformata in una caccia all'uomo, gli ha strappato la vita. Come femministe, donne, frocie, lesbiche, mogli, madri e figlie riconosciamo, perché ci colpisce da sempre, la violenza di quella mano che vuole annientare tutto ciò che non è decoroso, *normale*, assimilabile, valorizzabile, che non obbedisce a standard economici, morali, estetici sempre più elitari. Viviamo in una società in cui le parole legalità, decoro, sicurezza, significano semplicemente guerra alle/i pover*, alle/agli sfruttat*, alle/ai migranti, ai margini, alle donne che si autodeterminano, alle lavoratrici/tori che si autorganizzano e a chiunque provi a scegliere, o sia costretta ad inventarsi, modi diversi di vivere la propria vita. Il 12 maggio saremo in piazza contro tutta questa violenza che ci vuole succubi ed inermi. Saremo rabbiose e indecorose come lo erano Giorgiana e Maguette.
Ci vediamo tutte a Piazza G.Belli, di fronte la lapide di Giorgiana, il 12 maggio dalle ore 18 per una casserolata rumorosa: portate pentole, coperchi, mestoli e facciamoci sentire!
In vista dell'iniziativa prevista il 14 maggio a L38 Squat, con la presentazione del numero speciale della rivista Laspro dedicata alla campagna "Pagine contro la tortura", abbiamo raccolto le analisi di una compagna riguardo la differenziazione dei circuiti carcerari.
Buon ascolto.
E' in corso l'assemblea della comunità senegalese in via campobasso che ha lanciato per domani, venerdi, un appuntamento sotto la prefettura, a piazza venezia, alle 16. Sentiamo anche un compagno del csoa ex snia viscosa che ricostruisce il tessuto della comuità senegalese al Pigneto e il clima di repressione a cui sono soggetti da anni da parte della Finanza.
Alle 6.30 di questa mattina, diverse squadre di questura e Carabinieri in tenuta antisommossa, coordinate da Digos e ROS, hanno fatto irruzione all'Asilo Occupato di Torino, alle occupazioni di Corso Giulio Cesare e Borgo Dora e in due abitazioni. Il pretesto per questa operazione repressiva, che vede sei compagni/e tratti in arresto, sarebbe una zuffa avvenuta davanti all'Asilo lo scorso febbraio al termine di una serata; le accuse, molto gravi, sono di sequestro di persona, danneggiamento aggravato e resistenza a pubblico ufficiale. Nel carcere delle Vallette sono stati portati Antonio di Lecce, Antonio Sardo, Camille, Fabiola, Fran e Giada, mentre si parla di un settimo arresto non confermato.
Per aggiornamenti e scrivere ai compagni reclusi vai qui.
Abbiamo chiamato un compagno dell'Asilo occupato.
Con un compagno che vive nella tendopoli di San Ferdinando (Calabria) parliamo della mobilitazione No Confini - No Sfruttamento e del corteo nazionale avvenuto a Foggia il 24 aprile scorso.
Attraverso il suo intervento apprendiamo della liberazione delle 17 persone arrestate il 30 marzo scorso, come rappresaglia riguardo la rivolta avvenuta il 27 ottobre 2016 nel CARA di Borgo Mezzanone.
Al loro fianco, prima del corteo, un presidio si è infatti svolto davanti le mura del carcere di Foggia.
Le analisi del compagno si dilungano sulle modalità scelte per portare avanti la lotta, nel tentativo di allargare la responsabilità collettiva e fronteggiare le organizzazioni che vogliono contenere e appropriarsi dei percorsi di autorganizzazione.
L'intervento è in inglese, tradotto in italiano.
Durante l'ultima puntata di Silenzio Assordante, grazie al contributo di una compagna, abbiamo affrontato tecnicamente le disposizioni contenute nella nuova legge per reprimere le persone immigrate.
Nel secondo contributo audio trovate qualche dettaglio sugli attuali accordi tra Italia e Libia.
Il decreto Minniti del 20 Febbraio scorso è Legge. Approvato da Camera e Senato, il Daspo urbano accentua il controllo territoriale coinvolgendo anche le amministrazioni locali nella repressione dei comportamenti non subalterni all'ordine sociale.
Il Decreto Minniti emesso il 20 Feb 2017 è Legge, approvata da Camera e Senato. Detto anche Daspo urbano, porta il controllo nei territori, coinvolgendo anche le amministrazioni locali nella repressione dei comportamenti non subalterni all'ordine sociale.